
In un momento storico particolarmente delicato per il calcio italiano – tra crisi finanziarie, mancanza di ricambio generazionale e una governance spesso contestata – abbiamo intervistato l’avvocato Vincenzo Rispoli, figura di spicco nel mondo dello sport e della consulenza, con alle spalle una lunga carriera da procuratore sportivo e dirigente calcistico. Ha lavorato con campioni come Gianluca Pagliuca, Enrico Chiesa e Tomas Skurhavy, e ha guidato per cinque anni la US Cremonese, portandola dalla C2 alla Serie B. Con lui abbiamo parlato di passato, presente e futuro del calcio italiano, senza risparmiare riflessioni critiche e proposte concrete.
1. Avvocato Rispoli, lei ha lavorato con grandi calciatori come Pagliuca, Chiesa e Skurhavy: com’è cambiato il mestiere del procuratore sportivo da quando ha iniziato?
«Ho iniziato nel 1990. All’epoca eravamo pochi professionisti e c’erano ottimi rapporti tra noi. Il rapporto con gli atleti era individuale e io curavo prevalentemente l’aspetto umano, ancora prima di quello professionale. Oggi, invece, il mestiere è cambiato radicalmente: ci sono grandi agenzie con molte persone coinvolte e criteri di lavoro completamente differenti.»
2. Ha guidato la Cremonese e conosce bene il mondo degli investimenti immobiliari: secondo lei, oggi è ancora possibile gestire una squadra di calcio in modo sano ed equilibrato?
«Ho gestito la US Cremonese dal 2002 al 2007, ottenendo due promozioni consecutive dalla C2 alla B, sempre con oculatezza e attenzione ai costi. Il club era guidato da un presidente operativo non socio, un giovane responsabile dell’area tecnica, me e una segretaria. Il settore giovanile aveva costi contenuti e il budget ingaggi era compatibile. In questo modo, la società è stata ceduta senza debiti al Cavalier Arvedi. Quindi sì, una gestione sana è possibile, ma serve una struttura semplice, seria e realistica.»
3. Dopo la brutta partenza dell’Italia nelle qualificazioni mondiali, ha detto che il sistema calcio non riesce più a far crescere i giovani talenti: da dove si dovrebbe ripartire per migliorare davvero?
«La situazione della Nazionale non dipende solo dalla mancata crescita dei giovani talenti, ma da un insieme di fattori strutturali e culturali. Serve un’analisi complessiva, che tenga conto non solo del campo, ma anche dell’organizzazione, della formazione tecnica e delle politiche federali.»
4. Dal 2000 ad oggi sono fallite quasi 200 squadre di calcio in Italia, soprattutto in Serie C: cosa non sta funzionando secondo lei? Si tratta solo di problemi economici o anche di scelte sbagliate?
«Il fallimento di così tante società è il risultato di gestioni sbagliate e non oculate, sia in Serie A e B che nelle categorie inferiori. Basti pensare ai fallimenti della Fiorentina nel 2002 e poi del Napoli. Io stesso ho subito un grave danno finanziario in quell’occasione. Molti imprenditori pensano che gestire una squadra sia come gestire un’azienda privata, ma non è così: una società di calcio ha una dimensione pubblica, sociale, che va considerata fin dall’inizio.»
5. Molti chiedono un cambiamento radicale nella gestione del calcio italiano, soprattutto a livello federale: secondo lei è ancora possibile cambiare le cose dall’interno, o serve davvero una rivoluzione per salvare il nostro calcio?
«Sono riflessioni che sentiamo da anni, spesso senza esito. Ricordiamo tutti lo scandalo del 2006, che avrebbe dovuto stravolgere tutto il sistema. Eppure, la vittoria al Mondiale è bastata per lasciare tutto immutato. Se non si cambia davvero il modo di intendere il calcio a livello istituzionale, sarà difficile salvare ciò che resta.»
Conclusione dell’intervista per Agenparl
Dalle parole dell’avvocato Vicenzo Rispoli emerge un quadro lucido e disincantato del calcio italiano: un sistema che fatica a rinnovarsi, spesso prigioniero di logiche superate e gestioni improvvisate, ma che conserva ancora margini di miglioramento se affrontato con competenza, serietà e visione. La sua esperienza, maturata tanto nei rapporti con i grandi campioni quanto nella guida concreta di una società sportiva, offre una prospettiva rara: quella di chi conosce il calcio non solo nei suoi riflettori, ma anche nelle sue fragilità strutturali.
Cambiare è possibile, ma servono coraggio, preparazione e, soprattutto, la volontà di rimettere al centro il merito e la passione. Perché il calcio – come ci ricorda Rispoli – non è solo un’industria, ma un patrimonio collettivo che appartiene a chi lo ama, lo segue e lo vive ogni giorno.
