
(AGENPARL) – Thu 12 June 2025 Keynote Speech di Luigi Federico Signorini
Direttore Generale della Banca d’Italia
Convegno “Contratto e concorrenza nel mercato bancario: le sfide del XXI secolo”
Sala Magna Complesso Monumentale Steri
Palermo, 12 giugno 2025
La concorrenza è il motore di un’economia di mercato, il meccanismo che ne promuove
l’efficienza in senso allocativo e operativo. (Tornerò tra poco a soffermarmi su questi due
concetti, precisandoli, con riferimento specifico alle banche). È un meccanismo potente
ma delicato, che per conservarsi ha bisogno di essere protetto, e se del caso promosso,
dalle norme, dalle politiche, dall’attività amministrativa. Nell’Unione europea la tutela della
concorrenza, sancita dai Trattati, è un pilastro fondamentale dell’ordinamento economico1.
In termini generali, questo principio si applica al mercato bancario come a qualsiasi altro
settore dell’economia. Però l’attività delle banche è per certi aspetti speciale; e questo
fatto rende necessario sottoporle a una regolamentazione e a una supervisione più
penetranti rispetto ad altri settori economici. Gli elementi essenziali che definiscono i
rapporti tra le banche e i loro clienti (depositanti da un lato, prenditori di fondi dall’altro)
sono due: leva finanziaria e trasformazione delle scadenze. Da un lato, questi due
elementi consentono alle banche di svolgere il proprio ruolo centrale nel contribuire al
buon andamento e allo sviluppo dell’economia: canalizzando il risparmio, o comunque
una sua parte significativa, verso gli impieghi più produttivi, senza che ogni agente che
ha fondi in eccesso debba valutare da sé la convenienza di ogni singolo impiego finale,
un compito impossibile. Dall’altro, essi possono funzionare solo grazie a un catalizzatore
inerentemente delicatissimo, la fiducia: la fiducia, più precisamente, tra chi dà e chi riceve
i fondi, dai due lati del bilancio bancario; il che, in presenza di incertezza e asimmetrie
informative, espone le banche al rischio di dissesti, fughe, crisi di liquidità, i cui effetti
travalicano i diretti interessati e possono causare gravi ripercussioni sull’intera economia.
La potenziale rilevanza sistemica delle crisi bancarie giustifica, in questo settore, l’esistenza
di norme più articolate di quelle che si applicano ad altre imprese, così come di un regime
di supervisione prudenziale. Ma richiede anche limitazioni alla concorrenza? Oggi si pensa
Desidero ringraziare Giorgio Albareto, Emilia Bonaccorsi Di Patti, Alessio De Vincenzo, Roberta Occhilupo,
Enza Profeta, Maurizio Trapanese, che hanno contribuito in vario modo a preparare il materiale su cui è
basato questo intervento.
di no, e la tutela della stabilità finanziaria è affidata ad altri strumenti, più appropriati. Ma
in passato la questione ha visto prevalere di volta in volta idee opposte. Mi è sembrato
utile dedicare la prima parte di questa conversazione a ripercorrere il modo in cui la tutela
della stabilità e della concorrenza si sono intrecciate nella storia della regolamentazione
bancaria in Italia, e discutere gli insegnamenti che se ne possono trarre.
Sapere donde veniamo è istruttivo. Ma ancora più importante è capire dove siamo e
dove vogliamo andare. La seconda parte sarà quindi dedicata al presente e al futuro. Per
la tutela della concorrenza nel settore bancario, norme e politiche nazionali continuano
a essere rilevanti; tuttavia, oggi essa è anche, direi soprattutto, una questione europea.
Richiede il completamento del mercato unico e l’abbattimento delle barriere, anche
giuridiche, che tuttora di fatto esistono.
La posizione classica era che le banche commerciali non necessitassero di alcun regime
particolare. Perfino Luigi Einaudi, futuro governatore della Banca d’Italia, almeno nei
suoi scritti giovanili2 criticava l’idea che lo Stato, tramite vincoli e prescrizioni, dovesse
finire col rendersi in qualche modo garante della solvibilità delle banche: la cui tutela
andava invece affidata, come in ogni altro settore, all’accortezza dei creditori, in questo
caso soprattutto i depositanti e le altre banche. Fino ai primi decenni del secolo scorso
una specifica regolamentazione bancaria era pressoché inesistente (seppure con alcune
eccezioni)3.
La prima legge che affidava esplicitamente alla Banca d’Italia responsabilità prudenziali
è del 1926. Ma il terremoto che scosse il sistema finanziario e industriale italiano tra la
fine degli anni Venti e il principio degli anni Trenta, unitamente alle mutate condizioni
politiche e culturali, diede origine alla fine a un completo cambiamento di assetto. La
vicenda, o meglio l’insieme di vicende, che vide crollare come castelli di carta alcuni dei
più grandi conglomerati e travolse le maggiori banche commerciali del Paese, comportò
gravi ripercussioni economiche e un massiccio impiego di risorse pubbliche. Essa fu in
parte determinata dalla crisi internazionale di quegli anni. Mise però in piena luce anche i
rischi insiti in un’eccessiva commistione tra banca e industria, in una disciplina inesistente
dei conflitti di interesse, nella mancanza di elementari presidi normativi di liquidità e di
prudenza.
In questi scritti Einaudi mostrava la sua forte contrarietà alla “sorveglianza delle banche da parte dello
Stato”, perché essa “darebbe soltanto una mano a banchieri furbi e disonesti per accalappiare i depositanti
squadernando nei manifesti e negli annunci al pubblico il controllo dello Stato e menandone un vanto
assordante”. Einaudi L., (1959) “Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)”, vol. I,
1893-1902, Einaudi, Torino.
Nei decenni precedenti alla legge bancaria del 1926 le casse rurali, le banche popolari e le casse di
risparmio erano sottoposte a una disciplina speciale a motivo della loro tipicità organizzativa e operativa
che le differenziava profondamente dalle altre imprese bancarie. Cfr. Toniolo G., (2022), “Storia della
Banca d’Italia”, Tomo I, Il Mulino, Bologna; De Bonis R., e Trapanese M., (2023), “Le quattro età della
regolamentazione bancaria: che fare oggi?”, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, n. 756,
settembre; Molteni M., e Pellegrino D., (2021), “Lessons from the Early Establishment of Banking
Supervision in Italy (1926-1936)”, Quaderni di Storia Economica della Banca d’Italia, n. 48, ottobre.
Il risultato fu la legge bancaria del 1936, rimasta in vigore, seppure con aggiustamenti e
adattamenti successivi, per più di mezzo secolo.
L’assetto che si determinò in seguito a questa riforma era per molti aspetti tutto l’opposto
di quello dei decenni precedenti. In linea di fatto, tutte le grandi banche erano ormai,
o enti pubblici, o ex banche commerciali private acquisite al controllo pubblico dopo
la crisi. In linea di diritto, anche l’impianto normativo fu radicalmente trasformato in
senso pubblicistico. La legge attribuiva ampi poteri discrezionali agli organi di controllo,
senza un’esplicita indicazione delle finalità di questi poteri e quindi dei limiti che il loro
esercizio incontrava. Oltre a essere frutto dell’esperienza della crisi, il nuovo ordinamento
si inquadrava anche nel generale impianto dirigistico che caratterizzava l’approccio del
regime fascista alla politica economica. Per il governo, l’orientamento del credito poteva
essere una leva di comando in più.
Ai difetti che avevano caratterizzato il tradizionale modello di “banca mista” (conflitti
di interesse, trasformazione eccessiva delle scadenze, strategie aggressive, talvolta
sconsiderate) e che avevano contribuito alla sua crisi, si provò a porre rimedio
essenzialmente in due modi. Il primo fu quello di vietare alle banche l’acquisizione di
partecipazioni industriali, e allo stesso tempo segmentare rigidamente il sistema del credito
sulla base delle scadenze delle poste di bilancio e della specializzazione dell’attività: per
il credito a lungo termine, in particolare, si crearono appositi “istituti di credito speciale”,
che si finanziavano con passività di durata pluriennale. Il secondo fu quello di istituire
stringenti limiti alla concorrenza sul mercato del credito. Le banche erano suddivise in
categorie giuridiche, ciascuna autorizzata a compiere un insieme determinato, più o meno
esteso, di attività. Con l’eccezione di specifiche categorie di grandi istituzioni, le banche
avevano una “competenza territoriale” determinata, e non potevano invadere l’una l’area
geografica dell’altra. L’ingresso sul mercato, cioè la costituzione di nuove banche, era
sottoposto al potere discrezionale delle autorità creditizie. Anche l’espansione dell’attività
sotto forma di apertura di sportelli era rimessa al giudizio delle autorità, che decidevano,
in assenza (almeno all’inizio) di criteri normativamente prefissati, sulla base di quelle che
ritenevano essere le “esigenze economiche” del mercato.
L’ordinamento bancario italiano che si era così instaurato veniva definito un ordinamento
“sezionale”4, espressione teoricamente generica, ma di fatto usata per lo più, per quel che
sappiamo, in relazione proprio al caso del credito. Sulla base di questa definizione gli enti
creditizi si inquadravano come “imprese-funzione”, che le autorità del settore potevano
orientare con atti amministrativi per il raggiungimento di obiettivi di natura pubblicistica.
Conseguenza di questa impostazione era la qualificazione, confermata anche in sede
giurisprudenziale, dell’attività bancaria come servizio pubblico in senso oggettivo.
L’impressione di chi vi parla è che di questo assetto nel complesso non si sia fatto un uso
massiccio da parte del potere politico per orientare il credito (se non nel senso patologico
che diremo fra un momento), anche perché – con riferimento ai poteri amministrativi della
Cfr. Giannini M. S., (1949), “Istituti di credito e servizi di interesse pubblico”, Moneta e Credito, vol. 5;
Porzio, M., (1976), “Il governo del credito”, Liguori, Napoli; Costi R., (1994), “L’ordinamento bancario”, Il
Mulino, Bologna.
vigilanza – dopo il crollo del regime fascista l’indipendenza tecnica della Banca centrale, a cui
restò affidata la vigilanza, fu sempre rispettata, e non si volle mai fare di essa lo strumento
di strategie di parte; ma la questione è complessa, e meriterebbe un approfondimento che
qui non c’è spazio per fare. Ai fini dell’argomento di oggi rileva invece un’altra domanda:
tutte le limitazioni alla concorrenza di cui abbiamo parlato erano giustificate dal fatto che
questo fosse lo strumento necessario per prevenire crisi bancarie?
Se negli anni Cinquanta, in pieno boom economico, e ancora negli anni Sessanta non si
verificarono dissesti bancari di importanza sistemica, fu invece esteso e doloroso l’elenco
delle crisi che si susseguirono tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. I nomi, tra cui
non mancano quelli di alcune grandi istituzioni ricche di storia e di prestigio, sono nella
mente di tutti. In certi casi la crisi fu determinata da comportamenti fraudolenti; in altri,
soprattutto da distorsioni nell’allocazione del credito, a loro volta riconducibili all’adozione
di criteri di erogazione non ispirati a logiche imprenditoriali. In ogni caso, le limitazioni alla
concorrenza ricordate sopra (segmentazione territoriale e per finalità, limiti all’accesso al
mercato e all’espansione dell’attività) non agirono efficacemente da freno.
Anzi: si può ben argomentare che, allentando la pressione concorrenziale e quindi
l’esigenza di allocare i fondi in maniera efficiente, la protezione di specifici mercati, unita
alla natura pubblica di alcune istituzioni, abbia in alcuni casi patologicamente facilitato
azioni tendenti a orientare l’erogazione del credito sulla base di criteri diversi da quelli
della buona amministrazione economica. Ne scaturì quell’accumulo di prestiti inesigibili
che fu alla fine esiziale per le istituzioni interessate.
Come che sia, sopprimere la concorrenza costa. All’efficienza allocativa si è già accennato
un attimo fa; ma è importante qui sottolineare che in generale, cioè anche senza
considerare il caso di eventuali degenerazioni clientelari o d’altro genere, la concorrenza
costituisce uno stimolo importante affinché la banca distribuisca i fondi prestabili sulla
base del rendimento atteso al netto del rischio, contribuendo per questa via all’efficienza
complessiva del sistema economico; la sua assenza, invece, apre un maggiore spazio al
perseguimento di allocazioni sub-ottimali. A questa considerazione si aggiunge quella
relativa all’efficienza operativa, cioè alla minimizzazione dei costi, anch’essa molto sensibile
all’operare della frusta rappresentata dalla competizione sul mercato. Non è un caso che
sotto il “vecchio regime” della legge bancaria del 1936 le banche tendevano a mostrare
costi alti e, ciononostante, vaste rendite. Il costo sociale dell’intermediazione creditizia
era alto. Le riforme dei primi anni Novanta vi incisero in modo drastico: tra la metà degli
anni Novanta e la metà del successivo decennio l’incidenza dei costi operativi sul margine
d’intermediazione (il cosiddetto cost-income ratio) si ridusse dal 70 al 60 per cento; la
produttività, misurata dalle risorse amministrate per addetto, crebbe del 30 per cento in
termini reali.
Quale insegnamento si può trarre da questa rapida carrellata? Che limitare la concorrenza
comporta costi certi in termini di efficienza e, alla lunga, benefici scarsi se non inesistenti in
termini di stabilità. Quest’ultima va perseguita con strumenti differenti. Fermo restando che
nessun sistema prudenziale, per quanto accorto, potrà mai evitare del tutto le crisi bancarie,
specie in periodi di difficoltà dell’economia reale, non vi è evidenza che, se la stabilità è la
meta a cui si tende, limitare drasticamente la concorrenza sia la via per arrivarci.
Oggi forse questa conclusione è scontata (è da almeno 35 anni, cioè dai tempi della
legge Amato, che in sostanza se ne è preso atto), ma bisogna rendersi conto che allora
occorse un nuovo cambiamento culturale. Non si trattava di tornare all’antica idea che
l’attività bancaria non avesse bisogno di presidi prudenziali, bensì di accettare l’idea che
la limitazione della concorrenza non costituiva un presidio efficace. Il cambiamento fu
graduale, e coinvolse sia l’azione amministrativa, sia il contesto normativo.
Fin dagli anni Settanta la Banca d’Italia aveva intrapreso una riflessione che la portò a
perseguire, utilizzando tutta la flessibilità che le era conferita dall’ordinamento bancario
vigente, l’allentamento e poi il superamento dei limiti alla concorrenza tra le banche,
anche sotto la spinta della prima direttiva comunitaria in materia creditizia5. A partire
da allora, infatti, i poteri autorizzativi, per esempio quello relativo all’apertura di nuovi
sportelli, cominciarono a essere esercitati sulla base di criteri concorrenziali, prestando
esplicita attenzione ai profili di efficienza6. Venne abbandonata la politica del “caso
per caso”: prima introducendo, a partire dal 1978, “piani sportelli” che limitavano la
discrezionalità del relativo potere autorizzativo; e poi, a partire dal 1990, rimettendo
l’apertura e il trasferimento delle succursali alla piena autonomia dei singoli intermediari.
Questi provvedimenti innestarono elementi di competizione su un tronco che però
restava quello, fondamentalmente dirigistico, della legge bancaria del 1936. Alla fine
divenne chiaro che era necessario aprire una fase di riforma organica. Essa sarebbe
culminata con l’emanazione nel 1993 del nuovo Testo unico bancario (TUB), preparata
da un intenso lavoro tecnico, con il coinvolgimento anche dell’industria e del mondo
accademico7. La materia fu innovata in modo radicale.
Cfr. Ciocca P., (1991), “Banca, Finanza, Mercato”, Einaudi, Torino.
I criteri ai quali avrebbe dovuto attenersi la Banca d’Italia nell’autorizzare l’apertura di nuove succursali
o il trasferimento di quelli esistenti erano stati definiti in una delibera del Comitato interministeriale
per il credito e il risparmio (CICR) del 6 gennaio 1978. Essa mirava ad accrescere l’integrazione delle
infrastrutture bancarie nelle zone non sufficientemente servite, in relazione alle necessità di sviluppo
attuali e prospettiche delle singole aree, e un più omogeneo grado di concorrenza nelle varie aree del
mercato bancario, nonché a incrementare i livelli di efficienza del sistema bancario nel suo complesso.
Cfr., Costi R., (1994), “L’ordinamento bancario”, Il Mulino, Bologna. Il lento mutamento di prospettiva
determinatosi durante il governatorato di Guido Carli, e le azioni che la Banca cominciò allora a
intraprendere, sono riassunti in Ciocca P., (2022), “La Banca d’Italia. Una istituzione speciale”, Aragno,
Torino. Ne riportiamo un passaggio: “Carli […] fece eliminare dalle istruzioni di vigilanza le disposizioni
che invitavano i direttori delle filiali a sorvegliare i comportamenti troppo aggressivi delle banche,
liberalizzò la prestazione di alcuni servizi (come il ritiro del contante), rimosse i divieti alla pubblicità,
allargò le maglie della competenza territoriale, superò i controlli qualitativi attraverso il limite di fido…
[Inserì] fra i criteri che la vigilanza avrebbe posto a base dei suoi piani di autorizzazione dell’apertura e
del trasferimento degli sportelli bancari l’obiettivo antimonopolistico, segnatamente nelle aree territoriali
dei mercati dei depositi che vedevano presente una sola banca”.
Già a metà degli anni Ottanta la stratificazione delle norme di legge in materia bancaria aveva raggiunto
un livello tale da indurre il Governatore della Banca d’Italia a dichiarare “utile una aggiornata esposizione
organica della Legge bancaria”. Cfr. Ciampi C.A., (1986), “Considerazioni finali”, Roma, 31 maggio. Il
materiale normativo da coordinare e innovare avrebbe poi subito un ulteriore e cospicuo incremento
negli anni immediatamente successivi. Cfr. Castaldi G., (1995), “Il riassetto della disciplina bancaria:
principali aspetti innovativi”, Banca d’Italia, Quaderni di ricerca giuridica, n. 36, secondo cui “il Testo
Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (…) ha consolidato in modo organico le numerose leggi
che per oltre cinquant’anni hanno adeguato la disciplina del credito all’evoluzione dell’ordinamento,
man mano affastellandosi intorno al ceppo originario della legge bancaria del 1936, della quale non
veniva mai posta in discussione la centralità. (Sono) 162 articoli del Testo Unico (che) ne sostituiscono
circa 1400, contenuti in più di 130 provvedimenti legislativi”.
Vi contribuirono impulsi sia esterni, sia interni. Tra i primi, va menzionato soprattutto – in
sede internazionale – il primo Accordo sul capitale definito dal Comitato di Basilea nel
1988, che introdusse un requisito minimo di capitale uniforme. Si venne così a creare un
presidio prudenziale (specificamente, un limite alla leva finanziaria8) che era compatibile
con gli incentivi degli operatori (per aumentare il livello dei rischi assunti era necessario
aumentare il capitale), e al tempo stesso in linea di principio coerente con i meccanismi
concorrenziali (valeva allo stesso modo per tutti).
In sede europea, la seconda direttiva bancaria del 1989, con l’obiettivo di creare un
mercato unico dei servizi bancari e finanziari, adottò i principi dell’armonizzazione minima
e del mutuo riconoscimento. Questi principi crearono un meccanismo di concorrenza fra
ordinamenti che rendeva difficile applicare norme non in linea con l’evoluzione generale.
Sul piano interno, infine, la svolta più importante prima del TUB si ebbe con la
legge Amato del 19909, che riordinò la “foresta pietrificata” del sistema delle banche
pubbliche, imponendone la trasformazione in società per azioni e creando le condizioni
per la loro successiva privatizzazione e concentrazione. Nello stesso anno, le banche
vennero sottoposte – seppure con qualche regola particolare – alle norme sulla tutela
della concorrenza appena introdotte per tutte le imprese10. Nel frattempo la Corte di
cassazione, modificando il precedente orientamento, aveva stabilito definitivamente che
l’attività bancaria ha natura privatistica11.
Nel 1993, con il TUB, si abbandonarono del tutto i controlli di vigilanza finalizzati alla
limitazione della concorrenza (i “controlli strutturali”, come allora si chiamavano). Furono
rimossi i vincoli alla costituzione e all’attività delle banche, cancellati gli effetti della loro
suddivisione in categorie giuridiche, eliminata in sostanza la segmentazione ex lege del
mercato. Si confermò il carattere imprenditoriale dell’attività bancaria12. Si stabilirono
inoltre le prime norme sulla trasparenza dei contratti bancari: queste ultime avevano il
All’altra questione chiave, la trasformazione delle scadenze e il connesso rischio di liquidità, i primi
due accordi di Basilea non prestavano l’attenzione che essa avrebbe meritato. Standard per i presidi di
liquidità sono stati introdotti solo a partire dal Basilea III; e ad avviso di chi scrive la materia meriterebbe
ancora qualche riflessione in più. Sul punto, si vedano le considerazioni contenute in Signorini L.F.,
(2023), “Intervento alla ‘Giornata del Credito”, 5 ottobre.
Legge 30 luglio 1990, n. 218.
Legge 10 ottobre 1990, n. 287. Fino al 2006 la tutela della concorrenza nel settore bancario rimase affidata
alla Banca d’Italia.
Conseguentemente, agli operatori bancari, quando esplicano la normale attività di raccolta del risparmio
e di esercizio del credito, non sono riferibili le qualificazioni soggettive di pubblico ufficiale o di persona
incaricata di pubblico servizio. Cass. S.U. penali, sentenze n. 5 del 23 maggio 1987; n. 9863 del 7 luglio 1989.
Cfr. Ciocca P., (2000), “La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000)”, Bollati Boringhieri,
Torino.
fine diretto di proteggere gli utenti dei servizi bancari, ma nel perseguirlo contribuivano
anche, indirettamente, ad accrescere la pressione concorrenziale sul mercato.
Furono rese esplicite, in attuazione dell’art. 47 della Costituzione che attribuisce alla
Repubblica il compito di tutelare il risparmio, le finalità della vigilanza, tra cui l’efficienza
e la competitività comparvero accanto alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati
e alla stabilità del sistema.
Da allora, il sistema bancario si è trasformato completamente.
Per diversi anni il numero delle filiali bancarie, che era già salito considerevolmente a partire
dai primi provvedimenti di liberalizzazione della Banca d’Italia, crebbe ulteriormente. In
un’epoca in cui quasi tutta l’attività bancaria ancora si svolgeva allo sportello (torneremo
sulla questione tra poco), fu questo il modo in cui le banche cominciarono a competere
direttamente tra loro sul territorio, insediandosi l’una sul terreno dell’altra. Crebbe la
presenza delle banche nei mercati locali e si ridusse il relativo grado di concentrazione.
Nel 1980 il numero medio di banche per provincia era 21; alla fine del 1996 esso era
cresciuto a 2913.
Questo avvenne nonostante una netta diminuzione del numero delle aziende di
credito conseguente a un’ondata di fusioni. Le operazioni di fusione tra intermediari,
contrariamente a quello che si potrebbe superficialmente pensare, di fatto accrebbero il