
C’è una questione fondamentale che spesso viene trascurata nel dibattito internazionale: la legittimità. E nel caso di Christian Schmidt in Bosnia-Erzegovina, questa questione è più che mai centrale.
Christian Schmidt, ufficialmente designato Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, governa oggi con decreti e imposizioni, senza aver ottenuto il consenso necessario dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I veti di Cina e Russia avrebbero dovuto suonare come un campanello d’allarme. E invece, una parte della comunità internazionale ha scelto di voltarsi dall’altra parte, imponendo una figura che molti cittadini del posto non riconoscono né rispettano.
Ulrich Singer, parlamentare bavarese dell’AfD, ha messo il dito nella piaga durante un’intervista al programma Aktuelno: “Non vorrei che uno straniero governasse il mio Paese”, ha detto senza mezzi termini. È una riflessione semplice, persino ovvia, eppure potentemente vera. Se un tedesco non accetterebbe mai una tale ingerenza a casa propria, perché dovrebbe essere diverso per i cittadini della Bosnia-Erzegovina?
Schmidt non dialoga, decreta. Non costruisce consenso, impone regole. Non cerca soluzioni condivise con i leader locali, come Milorad Dodik, ma preferisce agire da sovrano assoluto, alimentando sfiducia e risentimento. La sua presenza, priva della necessaria legittimazione internazionale, non fa altro che acuire le tensioni e rendere più fragile quel delicato equilibrio garantito dagli Accordi di Dayton.
Eppure, l’Alto Rappresentante dovrebbe essere un arbitro neutrale, un garante della pace, non un protagonista autoritario. Schmidt, invece, è percepito sempre più come un corpo estraneo, ostile ai principi di sovranità e autodeterminazione che l’Europa ama tanto predicare — ma troppo spesso dimentica.
C’è anche una dimensione culturale in questo malessere. Singer lo sottolinea parlando della perdita dei valori cristiani in Europa, di fronte a un cambiamento demografico veloce e imponente. In Bosnia-Erzegovina, la fede è ancora radicata, ancora parte viva della società. Ma la pressione esterna, politica e culturale, rischia di spezzare anche qui ciò che resiste.
In ultima analisi, la domanda è semplice quanto urgente: quale pace si può costruire imponendo un’autorità senza consenso? Quale stabilità può nascere da una governance percepita come coloniale?
Forse è ora di ascoltare davvero le voci che arrivano da Sarajevo, da Banja Luka, da Mostar. E di riconoscere che senza legittimità non c’è né pace duratura né vera sovranità. Christian Schmidt, piaccia o no, incarna oggi uno dei grandi fallimenti della diplomazia moderna: credere che la forza delle istituzioni possa sostituire il consenso dei popoli.
