
(AGENPARL) – Fri 18 April 2025 Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale
Comunicato del 18 aprile 2025
AMMISSIBILE LA DETENZIONE DOMICILIARE PER IL PADRE CONDANNATO, SE LA MADRE È MORTA O NON PUÒ FARSI CARICO DEI BAMBINI
È costituzionalmente illegittimo il divieto di concedere al padre la detenzione domiciliare quando la madre sia deceduta o impossibilitata a occuparsi dei figli, ma questi possano essere affidati a terze persone.
Non viola, invece, i principi costituzionali il diverso trattamento, stabilito dall’ordinamento penitenziario, per la donna e l’uomo condannati che abbiano figli di età non superiore a dieci anni ovvero gravemente disabili.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 52, depositata oggi.
La questione era stata sollevata dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e di Venezia. Il primo caso riguarda un detenuto che aveva chiesto di essere ammesso alla detenzione domiciliare per occuparsi dei suoi due bambini, che erano allo stato accuditi dalla loro sorella maggiore. Il secondo caso concerne invece l’analoga richiesta di un detenuto padre di un figlio gravemente disabile, che necessitava di continua assistenza da parte della madre.
La norma esaminata dalla Corte consente di disporre la detenzione domiciliare della madre condannata anche quando i figli siano affidati al padre. Invece, il padre che sia stato condannato può essere ammesso alla detenzione domiciliare soltanto ove risulti che la madre sia morta o comunque sia impossibilitata a prendersi cura dei figli, e non vi sia modo di affidarli a persona diversa dal padre.
Secondo i due tribunali, la differenza di trattamento tra padre e madre detenuto non consentirebbe di tutelare appieno gli interessi dei figli, privandoli indebitamente del rapporto con il padre. Inoltre, essa violerebbe il principio di eguaglianza tra sessi e all’interno del matrimonio, privilegiando irragionevolmente la posizione della madre rispetto a quella del padre.
La Corte ha anzitutto riconosciuto una qualche distonia tra la legge esaminata e “lo stadio attuale del quadro ordinamentale, che – anche per effetto della mutata sensibilità sociale – tende ormai a riconoscere l’equivalenza delle due figure genitoriali rispetto ai compiti di cura, mantenimento ed educazione dei figli”.
Tuttavia, la Consulta ha osservato che il legislatore ha ritenuto di apprestare un trattamento di particolare favore per il rapporto tra la madre condannata e il bambino in tenera età, muovendosi in consonanza con l’obbligo di proteggere la maternità stabilito dall’articolo 31 della Costituzione, oltre che con numerose raccomandazioni di diritto internazionale che mirano ad assicurare, per quanto possibile, la presenza della madre condannata accanto ai propri figli.
A far da sfondo a questa scelta normativa, che attua in maniera particolarmente pregnante i principi costituzionali in materia di pena, sta anche il limitato impatto della misura sulla popolazione carceraria complessiva, composta solo per il 4 per cento da detenute donne.
La Corte ha concluso che “la scelta compiuta dal legislatore di assicurare la presenza anche della madre condannata a una pena detentiva, pur laddove il padre sia in condizione di farsi carico della cura e dell’educazione del minore, è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse all’esecuzione della pena detentiva – e quindi della pretesa punitiva dello Stato – e l’interesse del minore alla relazione genitoriale”. Verificherà poi il Tribunale di sorveglianza se il concetto di “impossibilità” della madre di prendersi cura del figlio possa essere esteso, in via interpretativa, anche a situazioni “in cui l’eccezionalità del carico connesso ai doveri di cura renda inesigibile che la sola madre vi faccia efficacemente fronte, in relazione ad esempio alle gravi patologie di cui il minore soffra e alle sue necessità di continua assistenza”.
È invece lesiva degli interessi preminenti del minore la scelta legislativa di precludere al padre condannato l’accesso alla detenzione domiciliare anche quando la madre sia morta o comunque impossibilitata a provvedere alla cura dei figli minori, ma questi possano essere accuditi da terze persone. Così concepita, la norma impedisce infatti ai minori di fruire della relazione continuativa con almeno uno dei genitori, che in linea di principio deve essere loro assicurata.
Resta peraltro fondamentale, anche in questo caso, la verifica da parte del Tribunale di sorveglianza che non vi sia pericolo di commissione di nuovi reati da parte del condannato, e che il ripristino della sua convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi.
Roma, 18 aprile 2025