
[lid] Nel 1948, a Roma, sulla sponda destra del Tevere, nel quartiere di Tor di Quinto, ospitato nei locali della “F. Aporti”, la scuola elementare di zona, l’UNLA istituisce il primo Centro di Cultura Popolare, per combattere l’analfabetismo e promuovere l’istruzione di base. Scrive Raffaele Carnevale: Il nome ‘Quinto’, attribuito alla torre medievale, ancora oggi esistente, ricorda probabilmente il nome di Quinto perché essa fu edificata nei campi che Quinto Cincinnato soleva coltivare nel tempo libero fra una guerra e l’altra, e dove gli ambasciatori del Senato della Repubblica si recarono per informarlo che i Romani lo avevano eletto dittatore nella guerra contro i Sanniti. Altri studiosi attribuiscono il nome ‘Quinto’ alla torre per il fatto che essa sorge nei pressi della quinta pietra miliare (“ad quintum lapidem”). La ‘Torre di Quinto, che a sua volta ha dato il nome a questo vasto territorio suburbano, ebbe nell’alto Medioevo una grande importanza strategica in quanto difendeva il corso del Tevere e controllava il traffico sulla via Flaminia. Episodi bellici famosi avvennero in questi luoghi, fra i più importanti l’ultimo atto della battaglia di Saxa Rubra, fra Costantino e Massenzio, che ebbe il suo epilogo proprio a Ponte Milvio. Da questo ponte, infatti, nella sua precipitosa ritirata verso Roma, cadde Massenzio nelle acque del Tevere e vi trovò la morte. Nonostante i grandi e vari avvenimenti bellici la zona di Tor di Quinto non cambiò volto fino ai nostri giorni: zona di ville e vigneti nella parte collinare, zona agraria e orto-frutticola nella parte bassa e lungo le sponde del fiume.
Alla fine della prima guerra mondiale e negli anni che seguirono, si videro sorgere casette abusive lungo i lati della via Flaminia nel tratto compreso tra Ponte Milvio e via Antonio Serra; nello stesso periodo, sempre ad opera di immigrati dalle varie regioni d’Italia, si ebbero lottizzazioni della collina che forma l’altopiano delimitato dal viale di Tor di Quinto e dalla via Flaminia, al centro del quartiere. Il versante nord di questa collina, quello che scende sulla Flaminia, si copri di casette e baracche sempre più fitte e popolate e costituì, nel suo complesso, un tipico paese meridionale. Ed in questo paese, cuore e centro del quartiere di Tor di Quinto, e dei suoi immediati dintorni. che si addensò una massa enorme di sbandati, provenienti da tutte le regioni del Mezzogiorno al seguito delle truppe di liberazione alla fine della seconda guerra mondiale. Era gente che, alla disperata ricerca di un rifugio, si accontentava perfino di trovare riparo nelle grotte naturali sparse nelle campagne alla periferia della città, vivendo in condizioni sub-umane. I problemi base di questa eterogenea comunità, il suo isolamento socio-culturale ed il suo lento ritmo evolutivo sono stati oggetto di studio e di attività del Centro di Cultura Popolare, istituito nel 1948 sulla sommità della collina; esso ha dovuto superare difficilissime prove prima di riuscire ad avere corpo e vita ed essere operante nel quartiere. La direzione del Centro “Tor di Quinto” a partire dal 1950 fu affidata a Raffaele Carnevale, uno dei fondatori dell’UNLA, che così descriveva la realtà del quartiere nella fase di avvio della vita del Centro: “Il quartiere formicolava di gente di tutte le età, e si stentava a credere che tutti quelli che vivevano di giorno nelle strade potessero trovare un posto per dormire la notte, tra le poche casette e le baracche della zona. Il quadro della situazione nella sua realtà fu scoperto e compreso da quell’équipe di assistenti sociali ai quali il Centro di Cultura Popolare aveva commesso l’incarico di effettuare delle inchieste… L’economia familiare era basata sul lavoro delle donne che si dedicavano al ‘mezzo servizio’. Al mattino, donne di ogni età lasciavano le loro case per recarsi in città a fare pulizie, bucati, cucina… Gli uomini validi avevano lasciato l’abitazione all’alba per andare in giro per i mercati generali e rionali, dove spesso è richiesta qualche ora di facchinaggio… Di giorno, il quartiere aveva un aspetto peculiare, essendo popolato di vecchi e bambini che vivevano nelle strade: dove mai potevano andare? Non vi erano altre possibilità. Ben presto la diagnosi della situazione, sempre più a fondo studiata, ci portò ai problemi dei giovani di ‘mezza età’. Questi giovani tra i 15 e i 20 anni erano la dannazione dei genitori, dei vicini, dei Carabinieri e persino della giustizia. Il quartiere di Tor di Quinto aveva conquistato, in quegli anni, il triste primato della delinquenza minorile. Pensammo di occuparci attivamente di questi giovani Le famiglie si raccomandavano perché li facessimo rinchiudere nelle case di rieducazione, nei riformatori o in altri simili istituti. Si poneva un nuovo grande problema per il Centro di Cultura Popolare: quello di avvicinare questi giovani e di cercare di capirli” Al loro recupero fu, quindi, dedicato ogni sforzo dall’équipe di lavoro del Centro. Da un’indagine risultò che la maggior parte di loro erano del tutto analfabeti; vi era poi un gruppo di semi-analfabeti e infine un terzo gruppo, più ristretto, di giovani che avevano conseguito la licenza elementare. Osserva ancora Raffaele Carnevale: “La differenziazione culturale non era determinante ai fini dell’orientamento morale e civile di questi giovani. In molti casi la maggiore cultura, costituendo solo una supremazia all’interno del gruppo, era più pericolosa; i fattori comuni predominanti erano quelli relativi alla famiglia, alla casa e all’ambiente. La maggior parte di questi giovani si allontanava saltuariamente dalla propria casa per qualche giorno insieme ai compagni: dove? Non aveva importanza: si dormiva sotto i ponti o nelle grotte, si mangiava ciò che si trovava o che ci si poteva procurare più facilmente; si progettavano piani e si attuava qualche colpo. Si sfuggiva poi alla polizia o si finiva per qualche mese nelle carceri per minorenni… Amavano raccontare le loro imprese ed esagerarle per sembrare più grandi. Costituivano vere proprie associazioni a delinquere sotto gli ordini dei rispettivi capi, ai quali ciecamente obbedivano. Prendemmo contatto con diversi capi e stabilimmo con loro dei veri e propri trattati di collaborazione… I vecchi ‘capi banda’ entrarono nei ranghi di collaboratori e lavoravano al nostro fianco con zelo e passione.
Il Centro di Cultura Popolare aveva vinto” Raffaele Carnevale era nato nel 1917 a Banzi, un piccolo paese della Basilicata, una regione nella quale l’analfabetismo imperava. Nel 1941, durante il periodo bellico, istituì la prima scuola per analfabeti ad Elwan, in Egitto, e fino al suo rientro in Italia insegnò e diresse numerose altre scuole per analfabeti, semi-analfabeti e di avviamento professionale nei diversi campi per prigionieri di guerra italiani nel Sud-Africa. Nel 1946 rientrò in Italia. La guerra e il dopoguerra avevano notevolmente aggravato il deficit alfabetico del nostro Paese: la percentuale di analfabetismo raggiungeva punte del 46-48% nel Mezzogiorno. Come abbiamo visto, la direzione del Centro “Tor di Quinto” si rivelò subito molto impegnativa, ma, sotto la guida di Carnevale, si riuscì a debellare definitivamente il triste fenomeno della delinquenza minorile ivi esistente, l’analfabetismo e il semianalfabetismo dei giovani e degli adulti del quartiere. Data la povertà della popolazione del quartiere (a tale proposito, vorrei ricordare che erano provvidenziali gli aiuti che l’American Friends Service Committee faceva pervenire sotto forma di viveri e di indumenti che i Centri si assunsero anche il compito di razionalizzare e di distribuire) si avverti subito l’esigenza di legare la formazione culturale alla possibilità di apprendere un mestiere. La mancanza di mezzi non consentiva l’acquisto delle costose attrezzature necessarie per i laboratori; si giunse così ad una serie di accordi pratici con gli artigiani locali, che permisero la formazione di molti giovani artigiani. Nel Centro di Tor di Quinto, oltre alle attività culturali libere e al servizio di biblioteca, funzionavano corsi per il conseguimento della licenza elementare e media (corsi CRACIS), corsi professionali per segretaria steno-dattilografa, corrispondenti commerciali, addetti alle agenzie turistiche, telescriventisti, operatori di museo.
Negli anni ’60, Tor di Quinto incominciò a cambiare fisionomia avviandosi a diventare quartiere residenziale; la speculazione edilizia espulse dal quartiere gli abitanti originari che andarono a popolare le nuove borgate: Tomba di Nerone, Giustiniana, Ottavia, La Storta, Labaro, Prima Porta ecc. Molti dei corsi del Centro continuarono nelle sezioni staccate che furono istituite li, a sostegno dei vecchi allievi. Sezioni staccate furono create anche presso gli Ospedali Forlanini e Santa Maria Della Pietà, nei quali si realizzarono corsi di riqualificazione professionale, di scuola popolare, corsi CRACIS per il conseguimento della licenza di scuola media. Tutto questo fu possibile perché in detti ospedali le degenze erano generalmente molto lunghe.
L’attività svolta dal Centro di Cultura Popolare ha avuto riconoscimento e apprezzamento da parte di molti studiosi, in Italia e all’Estero. La riprova della risonanza che il Centro aveva suscitato fu la visita, nel 1970, della moglie del Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, già maestra, che, destando stupore nelle autorità italiane che lo ignoravano, volle visitare il Centro di Tor di Quinto, quale espressione emblematica degli interventi socio-educativi in atto nel nostro Paese. Raffaele Carnevale fu più sorpreso che compiaciuto, ritenendo naturale, doveroso che si operasse affinché la borgata potesse maturare la coscienza civile e presentarsi, nel contesto cittadino e nazionale, come interlocutrice a pieno titolo.
Raffaele Carnevale ha mantenuto la direzione del Centro di Tor di Quinto per oltre 30 anni, fino alla sua scomparsa avvenuta, emblematicamente, nel ‘suo’ Centro mentre presiedeva una riunione di docenti. Alle sue esequie partecipò una folla commossa composta in gran parte dai suoi ex alunni e collaboratori. Così lo ricorda un suo ex alunno: “Per me, il Prof. era una persona ricca, è venuto in questa zona povera a portare la sua ricchezza non di denaro ma di cultura e penso che avrebbe potuto dare di più a questa zona perché era ancora molto ricco di quella cultura che con molta facilità trasmetteva anche agli altri”. Un insegnante: “Ci si accorge sempre troppo tardi di ciò che si perde, ma la vita non consente rimpianti, corre verso il futuro e poiché morendo si lascia uno spazio vuoto, solo questo puoi chiederti: chissà, chissà a chi ha lasciato spazio? Oggi, vorrei tentare una risposta: a chiunque voglia continuare il Suo lavoro; a chi sappia rinunciare a se stesso, per regalarsi, ogni giorno, un po’ …”. Questo il ricordo di un altro insegnante: “Il prof. Carnevale mi ha dato quello che anni di studio e la lettura di tanti libri non mi avevano mai fatto capire: stare dalla parte degli allievi per poter conoscere e capire meglio, perché solo così si può correttamente valutare. Solo in un processo educativo paritario, sul piano della dignità del docente e dell’alunno, è possibile un’educazione cosciente, è possibile che dall’etero-educazione nasca l’auto-educazione.
Ho imparato a tener conto del contesto in cui avviene il fenomeno educativo, del soggetto che interagisce con il docente nel processo educativo. Ho appreso e sperimentato successivamente che era meglio un insegnamento non sclerotizzato nelle formule e nei sistemi, che era preferibile un insegnamento al passo con i tempi, nel rispetto di certi elementi universali e tradizionali….”. Il ricordo dell’Ispettore Raffaele Cancro: “In una borgata di questa città, che col tempo diventerà un quartiere della borghesia, o in un paese arroccato sulla cima o nascosto in una angusta vallata, in due stanze appena illuminate, con gli uomini addossati alle pareti e le donne sedute sugli sgabelli portati da casa o sui barattoli di cinque libbre, che avevano contenuto la margarina distribuita dagli americani alle popolazioni affamate, contestualmente alla ricostruzione delle case e delle strade distrutte dalla guerra, si ricostruivano l’alfabeto, o più precisamente, gli alfabeti, soprattutto i principi della convivenza civile… Cogliere le esigenze del momento storico ed ad esse dare la risposta più conveniente, direi più civile, fu il merito di un gruppo di coraggiosi, che, animato da Anna Lorenzetto, fondò quella peculiare associazione, che sarà poi conosciuta come UNLA.
Di quel gruppo fece parte Raffaele Carnevale e in esso fu attore non secondario; rinunziò ad una carriera ministeriale, che lo avrebbe portato ai gradi più prestigiosi dell’amministrazione pubblica, per avviare a Tor di Quinto un discorso educativo corale, attori gli abitanti della borgata, appena usciti dalle vicende drammatiche della guerra perduta… Guadagnarsi uno spazio in una città come Roma, aggregare gli adulti e, in particolare, giovani, guadagnarsi la fiducia dell’amministrazione comunale e, in seguito, della Regione Lazio, meritare l’attenzione del Provveditore agli Studi, del Ministero della Pubblica Istruzione e di quello del Lavoro, fu possibile, non grazie alle tessere dei partiti e alla dipendenza clientelare dai notabili, ma unicamente perché Raffaele Carnevale era portatore di autentici valori sociali e civili, quali, secondo una espressione che gli fu cara, vanno radicati nelle coscienze se si vuole che le istituzioni, e anche i partiti, rifuggendo dalla demagogia, diano risposte concrete ai bisogni e alle esigenze… Raffaele fu educatore per scelta e vocazione, partendo dalla concretezza del presente, con le sue contraddizioni e le sue insufficienze, crea, giorno dopo giorno, le condizioni possibili per un futuro diverso, ovvero realizza un altro mondo… In definitiva l’educatore è costruttore di civiltà, se questa è, come deve essere, la somma del contributo di tutti dell’operaio come dell’intellettuale – che, a cominciare dagli anni della scuola dell’obbligo e per tutto il corso della vita, si forniscono dei più opportuni strumenti critici e di codici morali non caduchi… Nel Mezzogiorno, in ambienti fortemente condizionati dai precedenti storici, i primi operatori dell’UNLA dovettero, affidandosi al dialogo aperto, franco, libero da pregiudizi, avviare le attività, che, pur in aderenza alle esigenze locali, aprissero le popolazioni a più vasti orizzonti… Si, l’educazione evidenzia le attitudini, coltiva le inclinazioni avvia le specializzazioni, indica le vie per la realizzazione di sé ma soprattutto valorizza gli attributi umani, che sono comuni agli uomini di tutti i continenti, indipendentemente dalle realtà contingenti. Nei corsi di istruzione di scuola popolare e CRACIS, nelle case di cura, nelle sezioni culturali, nella biblioteca, nei corsi professionali, Raffaele Carnevale fu sempre presente con la parola dell’uomo, il quale, diceva sempre, viene prima dello specialista; la parola, se espressione di un messaggio umano, cammina, modifica, educa. Assicurare che il tecnocrate non umili l’uomo fu l’idea-guida di Raffaele Carnevale educatore. Oggi di Raffaele Carnevale ricordo tutto… Rileggo la sua vita e mi confermo nelle mie scelte e mi convinco che non si vive inutilmente. Possono cancellarsi caratteri delle lapidi, ma non annullarsi i contributi che ciascuno, con le sue possibilità, versa in quel patrimonio millenario che siamo soliti chiamare Civiltà”.
Durante le esequie,tti il senatore Salvatore Valitutti, quale cultore di scienze dell’educazione, ha voluto ricordare l’educatore e l’amico con un discorso che coglie in tutta la sua dimensione l’opera di Raffaele Carnevale: “Ora che si è dipartito da noi, debbo dire all’amico Raffaele Carnevale quello che non sono riuscito a dirgli in nessun momento della lunga consuetudine dei nostri rapporti, che fu tale anche se costellata da intervalli di silenzio. In lui io ho ammirato soprattutto l’uomo, per la sua umile dedizione all’educazione del popolo.
Egli è stato davvero educatore del popolo, intendendo per popolo il flusso continuo dei giovani che vengono alla vita e l’insieme di tutti coloro che vogliono ascendere nel moto della vita e incontrano ostacoli e difficoltà a questa loro ansia di elevazione. Questa sua vocazione è stata tanto più significativa e vera quanto più egli aveva voluto il proprio lavoro di educatore contro la sua originaria scelta professionale. Raffaele Carnevale veniva dal profondo Sud che gli aveva rivelato anche, con la sofferenza, il segreto del dramma di quelle popolazioni anelanti a più alta vita civile e angariate più che dall’egoismo dei beati possidentes dal retaggio di un costume educativo contenente in sé i veleni di una lunga tradizione di isolamento e di reciproca diffidenza. Egli era perciò nativamente assetato di solidarietà. Voleva darne e averne. Si incontrò con l’UNLA, nell’ esplodere del tempestoso dopoguerra denso di distruzioni e di dolori, ma anche illuminato da grandi speranze e vibrante di slanci. Questo incontro lo rivelò a se stesso e gli costruì la sua vita come ideatore e artefice del Centro di Cultura Popolare di Tor di Quinto, che è stato più di una istituzione educativa perché è stato il centro di animazione morale e culturale della vita collettiva di un quartiere nella fase iniziale del suo sviluppo.
Quando si farà la storia dell’educazione popolare a Roma in questo lungo dopoguerra, bisognerà dedicare un capitolo al Centro di Tor di Quinto e fregiarlo del nome di Raffaele Carnevale che ne è l’inventore e costruttore… Non lo vedevo da alcuni anni. Le nostre strade si erano divise, lo scorso anno mi ricercò e mi volle vedere per pregarmi di accettare la presidenza dell’UNLA. Avevo tutte le ragioni per dirgli di no, ma non seppi resistere al suo appello. Avevo già, nel mio cuore, una profonda reverenza per Raffaele Carnevale e lo consideravo un esempio per tutti noi, non solo un maestro del popolo, un maestro di tutti, ma anche mio maestro. Perciò accettai. Ma ora, carissimo amico Carnevale, mi hai lasciato solo e io sento tristemente la mia solitudine. Senonché, morendo, tu hai voluto lasciarci un alto esempio, quello di non abbandonare il lavoro che abbiamo scelto, come tu lo avevi scelto, o che ci è stato assegnato dal corso stesso della nostra vita con gli altri, come a me è stato assegnato in questo momento della mia esistenza. Perciò non ti tradirò e mi sforzerò di rimanere al posto che tu scegliesti per me. Grazie, caro Carnevale, grazie a nome di tutti coloro ai quali tu hai insegnato semplici ed essenziali verità e grazie ai tuoi familiari, a tua moglie e ai tuoi figli, ai quali tu hai tolto qualche cosa per darla a tutti noi che oggi ti rimpiangiamo e ti esprimiamo la nostra più profonda gratitudine per ciò che ci hai donato”.
Ai tuoi figli, agli allievi, a
noi, ammonivi, e ci spronavi
a fare; mi par di ricordare le
Parole: “Siate sempre onesti
figli, perché tranquillo è il
sonno dei giusti”
Nostro malgrado non sempre
abbiamo fatto tesoro delle tue
parole
e con molto rammarico
diciamo di esserci pentiti
Raffaele”
.. Abbiamo fede: “Dormi sereno, Padre, Maestro, Amico”.
Un ex allievo del Centro
MIO PADRE
Di mio padre non ho speciali ricordi
da ritenere a mente.
Era un uomo fatto su misura,
preciso, severo e onesto.
Aveva il culto per la libertà.
la cultura e la promozione umana…
. Per tant’anni
fu sindaco del natio paesello…
Non accettò la dittatura
e fu costretto all’esilio.
Quando dopo la guerra
ritornarono le libertà scacciate,
nessuno si ricordò di Lui
E Lui, forse, non volle
essere ricordato.
Mori povero e lasciò in eredità
alla numerosa prole
i concetti vissuti
della Sua operosa onestà.
Raffaele Carnevale
Nel 1983, ad un anno dalla scomparsa di Raffaele Carnevale, il senatore Salvatore Valitutti, Presidente dell’UNLA, commemora la figura e l’opera di Raffaele Carnevale. Per sua volontà, a partire da quell’anno il Centro di Cultura Popolare Tor di Quinto si chiamerà “Raffaele Carnevale”, come testimonia la lapide che si trova ancora oggi affissa vicino l’ingresso del Centro.