[lid] Il convegno del 26 Gennaio, è iniziato con l’esordio del Presidente Giovanni Cannata che, con sue testuali parole, lo ha definito “un incontro di terza misura poiché mette in saldatura le esperienze di studio e di ricerca sul campo, sul territorio” e poi ha affermato “se conosci e se conosci bene forse non dici stupidaggini ed, ogni tanto, di stupidaggini in giro, anche sui temi della coesistenza, convivenza ce le troviamo”. Dato l’elogio alla vera conoscenza, fatto da Cannata, le aspettative dei partecipanti al convegno erano sicuramente alte. Senza dubbio, i rappresentanti della società civile, presenti al convegno (Fig. 1), speravano vivamente che gli esperti di scienze sociali presenti: Alessandro Simonicca e Flavio Lorenzoni dell’Università La ‘Sapienza’ di Roma, Letizia Bindi (Università degli Studi del Molise), Salvatore Bimonte (Università degli Studi di Siena) e Maria Benciolini (Cooperativa Eliante), avessero toccato, tra i vari argomenti inerenti il rapporto uomo-natura, anche quelle problematiche concrete e molto sentite dai residenti del Parco, come la convivenza problematica con lupi, orsi, cinghiali, in particolare riferimento all’allevamento brado e semibrado. “Purtroppo” niente di tutto questo” afferma Virgilio Morisi allevatore di Pescasseroli e presidente della neo-costituita ETS ‘Iura Civium ad Bonum Naturae” “al contrario” aggiunge Morisi “durante buona parte di questo autoreferenziale e noiosissimo convegno sono – e siamo stati costretti – ad ascoltare le lucubrazioni altamente teoriche di studiosi di scienze sociali, soprattutto antropologi, che hanno preferito usare un linguaggio forbito e specialistico, come se si trovassero in una discussione tra addetti ai lavori, all’interno di in un’aula universitaria, senza considerare minimamente che, ad ascoltarli, c’erano, invece, anche comuni mortali o meglio ‘cittadini comuni’ che non sono assolutamente avvezzi ad un parlare cosi tecnicistico. Onestamente, quest’approccio, totalmente calato dall’alto, mi è sembrano non solo inopportuno ma alquanto irrispettoso nei confronti del pubblico”.
Purtroppo, molti allevatori che avrebbero voluto partecipare al Convegno, anche del versante Laziale e Molisano del Parco, non sono riusciti a venire, a causa della difficoltà a lasciare le proprie greggi. Tuttavia, Morisi, che era tra i presenti, si è premurato di inviare il link dell’evento ripreso da ‘Radio Parco’ (https://www.youtube.com/watch?v=h9yiDYer-48) ai vari membri della sua stessa associazione per la Tutela dei Diritti dei Cittadini e delle Buone Pratiche Agrosilvopastorali, nonché a rappresentanti di due altre associazioni: Il Comitato Agricoltori e Allevatori del Territorio (CAAT) Molise, presieduto da Gugliemo Lauro e L’Alleanza dei Pastori Aurunci e Ciociari (APAC) del Basso Lazio, presieduta da Giuseppe Ferrari. Dice Morisi “era importante che anche i miei colleghi si facessero un’idea delle cose dette e non dette al convegno e che ci confrontassimo sulla sostanza degli argomenti trattati. Dopo un paio di giorni ho ricevuto varie risposte, e ne riporto qui soltanto un paio che riassumono le opinioni di buona parte degli allevatori che hanno ascoltato la versione registrata del convegno”. Ad esempio, Guglielmo Lauro ha detto: “Ho avuto a che fare con tanta gente: veterinari, ambientalisti, forestali, politici e sebbene ci siano stati fraintendimenti e visioni contrastanti, siamo riusciti a comunicare. Pero questi studiosi di scienze sociali sembrano essersi calati da Marte, parlano una lingua tutta loro, ma chi li capisci sti antropologi!”. Invece Giuseppe Ferrari ha affermato: “Caspita e se questi sono gli studiosi che dovrebbero studiare il nostro punto di vista e che si preoccupano di come restituire i dati delle loro ricerche alla gente comune, allora siamo rovinati! A me è sembrato che quando parlavano erano interessati solo a fare bella figura con i loro colleghi e con quelli del Parco, ma poi se ne infischiavano se noi altri del pubblico capivamo o non capivamo quello che dicevano”. Di questo cortocircuito dialettico se ne è sicuramente accorto anche il Presidente Cannata che, al termine del convegno, ha giustamente invocato la necessità e il “dovere di fare una restituzione comprensibile a tutti” cosa che, evidentemente, almeno nell’ambito di questo convegno, non è avvenuta.
Detto questo, Morisi propone di entrare nel merito di alcune affermazioni su argomenti più concreti e meno teorici fatte da alcuni relatori. Tra gli interventi introduttivi, vale la pena di soffermarci su alcune frasi del presidente della Comunità del Parco, Antonio Di Santo, che ha detto che il vero successo della conservazione in questo territorio è il fatto che “il Parco, come creatura, è diventato un po’ di tutti” e che “una valle presidiata, regolamentata diventa una valle esclusiva e l’esclusività crea sviluppo” e, sebbene esistano delle limitazioni, sono proprio queste a creare un’opportunità economica. Infatti, dice Di Santo “se io ho una limitazione, posso chiedere un prezzo per visitare quella valle, quel luogo”. Però, secondo Morisi, in tale discorso è implicita una certa idea di commercializzazione della natura che sembra ‘snaturare’ la natura stessa. “Dare un prezzo al nostro patrimonio naturale, significa tramutare la natura in una specie di negozio, personalmente non mi rivedo in questa idea. Anche questo concetto di esclusività, da’ quasi l’idea che stiamo parlando di una natura per pochi ‘eletti’, quelli che possono permettersi di alloggiare in albergo e pagarsi la settimana bianca”. Dello stesso parere è l’economista Salvatore Bimonte, relatore al convegno, che afferma: “il concetto di esclusività io lo eviterei perché fa percepire l’ambiente come un bene di lusso. Il prezzo cresce e quindi è a portata di pochi. (Il Parco) dovrebbe essere inclusivo sia di chi di vive; cercando di trovare forme di riorganizzazione che distribuiscano il reddito”.
Inoltre, aggiunge Di Santo, “il Parco non è solo un veicolo per conservare questo territorio, ma anche un veicolo per svilupparlo, un laboratorio di sviluppo socio-economico sostenibile e compatibile”. La stessa idea è stata ripresa dall’antropologa Maria Benciolini la quale ha affermato che “tutte le aree protette possono essere grandi laboratori non solo per fare ricerca ma per sperimentare diversi modi di stare nella natura, di stare con la natura”. Tuttavia, l’idea di Parco come laboratorio, dice Morisi, non piace affatto agli allevatori, soprattutto quando essi stessi sono oggi diventati le ‘cavie’ per la sperimentazione di norme, restrizioni e vincoli che stanno avendo un impatto estremamente serio sulla produttività delle loro aziende, mettendo a serio rischio la stabilità socio-economica di un intero territorio. Inoltre ci si è azzardati ad interferire negativamente sulle attività consuetudinarie di gestione dell’ambiente, praticate – con successo – da tempi immemorabili e che hanno permesso di mantenere in ottimo stato di conservazione il territorio del Parco. Tali attività tradizionali sono state soppiantate da metodologie e pratiche agrosilvopastorali del tutto aliene e mai sperimentate. Ciò rischia di mettere a repentaglio la delicata stabilità ecologica degli habitat, invece di tutelarli; la responsabilità di tutto questo non può che essere attribuita, in buona parte, all’Ente Parco.
Come il Direttore Sammarone, nel suo discorso di chiusura, anche Di Santo elogia, tra le azioni del Parco, quella di aver elargito indennizzi. Nello specifico, parlando degli indennizzi, Di Santo afferma che questi rappresentano “un’azione a posteriori e servono per rimediare ad una cosa che è già avvenuta” e che forse bisognerebbe “concentrarsi di più sull’azione di prevenzione per evitare che avvengano quelle situazioni” che inficiano sulle attività degli allevatori. Peccato, che ne’ Di Santo, ne’ gli altri relatori, hanno fatto alcun esempio concreto circa la natura delle azioni di prevenzione da intraprendere, lasciando gli ascoltatori nel dubbio. Infatti, non ci è dato di sapere a quali misure preventive Di Santo stesse alludendo e ci auguriamo che non avesse in mente una delle tante inefficaci misure inneggiate spesso dagli ambientalisti, come i fatidici, spesso inutili, se non dannosi recinti elettrificati. “Noi allevatori” dice Morisi “riteniamo, invece, che la misura di prevenzione più efficace per tenere sotto controllo le predazioni, e altri danni causati da fauna selvatica, sarebbero seri piani di contenimento per la gestione e il controllo di specie in aumento come cervi e cinghiali e non per ultimo i lupi, anch’essi in visibile incremento. Peccato che di tutto questo non si sia stato fatto il benché minimo accenno durante il convegno”.
Dice Morisi, ha fatto bene il Vice-Sindaco di Pescasseroli ad affermare che “noi ci giochiamo con i piani socio-economici il futuro del nostro parco”, ma avrebbe dovuto anche aggiungere che con questi piani socio-economici – soprattutto quelli calati dall’alto e privi di un approccio partecipativo – ci si gioca anche il futuro dell’allevamento di montagna o di quel poco che ancora ne resta. Afferma Morisi “ci preoccupa, infatti, che la stesura di piani socio-economici che decideranno il futuro del nostro territorio, siano affidati a studiosi e ricercatori che, per necessità di carriera, si sono appiattiti in modo acritico sulle posizioni e aspettative del Parco, dimenticando che l’ente che li sta ingaggiando ha già violato e continua a violare i diritti di uso civico di noi allevatori di montagna”. Basti pensare che la Legge Quadro sulle Aree Protette (394/91) è stata bypassata dal Parco, con particolare riferimento al rispetto dei “diritti reali e gli usi civici delle collettività locali”. Nello specifico, l’articolo 11 della legge 394/91, sez. 5. chiarisce che, nell’ambito dell’applicazione del regolamento del Parco: “restano salvi i diritti reali e gli usi civici delle collettività locali”. Inoltre, nella sezione h), 2-bis dello stesso articolo, è chiaramente specificato che il Parco è tenuto a valorizzare “altresì gli usi, i costumi, le consuetudini e le attività tradizionali delle popolazioni residenti sul territorio, nonché le espressioni culturali proprie e caratteristiche dell’identità delle comunità locali….”. Purtroppo tutto questo non è avvenuto e non sta avvenendo. A ciò, dice Morisi, “si aggiunge la scelta di molti Sindaci che continuano ad affittare aree destinate ad uso civico, al Parco, sottraendo aree pascolive agli allevatori. Sebbene questi contratti siano annuali, possono essere rinnovati”. Ma il rischio maggiore, secondo Morisi, “è che con l’approvazione del Piano del Parco queste aree (che includono i nostri pascoli) potrebbero essere trasformate in ‘Riserve Integrali’, quindi interdette a noi allevatori. Ovviamente, tale cambio di destinazione sarebbe comunque illegittimo”.
“Insomma” dice Morisi “mi domando se sia eticamente corretto per varie tipologie di ricercatori ma soprattutto antropologi (quelli che dovrebbero essere più vicini alla gente), accantonare tali considerazioni, come appunto il tentativo non dichiarato ma ‘praticato’ da parte del Parco di espandersi accaparrandosi, con la compiacenza dei sindaci, nuove aree ad uso civico”. Fa sorridere l’affermazione del Direttore Sammarone quando dice che il Parco non mette vincoli e afferma testualmente: “io non sto vincolando, io non ti sto togliendo nulla, io sto mettendo una tutela e una garanzia sui tuoi beni, e questa non è una scelta che ha fatto il Parco”. Tale dichiarazione per gli allevatori estensivi non è soltanto mendace, ma contraddice profondamente ciò che sta accadendo. “Insomma” ribadisce Morisi “ne’ antropologi, ne’ sociologi ne’ economisti, ne’ altri ricercatori dovrebbero entrare nel merito della pianificazione territoriale, senza aver prima tenuto conto di importanti aspetti di carattere costituzionale come il fenomeno della disapplicazione delle norme di livello gerarchico superiore negli atti o provvedimenti di livello gerarchico inferiore. In parole povere, non è accettabile che Parchi Nazionali e Regionali stilino dei regolamenti interni,’pro domo sua’, per giustificare misure ‘top-down’ che, troppo spesso, vanno a sfavorire i veri custodi del territorio (es. allevatori e agricoltori) e, difatti, contraddicono le leggi Nazionali”. Certamente gli studiosi presenti al convegno non erano ferrati su tali aspetti, ma sarebbe necessario che inizino a familiarizzare presto con queste tematiche, prima di calarsi nella ricerca sul campo.
Durante il Convegno, Diego Cutini, vice-sindaco di Pescasseroli, ha anche parlato dello spopolamento e della necessita di tenere in questo territorio le persone e continuare a vivere in questi posti ma non ha spiegato come. Lo stesso argomento è stato ripreso da altri relatori senza che giungesse, però, nessun suggerimento da parte loro, su come contrastare questo fenomeno. Invece, a noi allevatori, sono piaciute alcune affermazione dell’economista Salvatore Bimonte e che condividiamo a pieno, ad esempio, quando dice che “solo se si riesce a creare reddito distribuito anche la conflittualità viene meno”, in particolare c’è piaciuta la sua interpretazione di sostenibilità. Infatti, Bimonte dice che di “sostenibilità tutti ne parlano ma nessuno è in grado di dire cos’è. Per me sostenibilità significa sopravvivere, ovvero trovare il modo di farcela”. Si è esattamente così! Anche per noi allevatori di montagna, la sostenibilità è proprio il riuscire a sopravvivere in un mondo che cambia velocemente e che ci pone ai margini della sfera economica e che, giorno dopo giorno, ci aliena a causa di una burocrazia insostenibile.
Durante il convegno, alcuni relatori hanno fatto cenno all’importanza di promuovere i prodotti tipici del territorio. Lo stesso Direttore Sammarone ha ammesso “sulle produzioni siamo messi male. Picinisco è l’unico comune che ha una DOP in tutto il Parco, che è una DOP sul pecorino.” Tuttavia, dice Sammarone “di tutte le aziende che stanno a Picinisco solo due o tre hanno aderito alla DOP, allora evidentemente ci sarà un difetto di comunicazione”. In effetti, secondo, Morisi “forse la non aderenza alla DOP non è tanto un problema di comunicazione, ma è invece legato al fatto che il pecorino, a Picinisco, è comunque una produzione di nicchia, e quindi limitata. Forse, i pastori locali temono che l’aderenza al marchio, anziché portare benefici, possa gravarli di ulteriori incombenze burocratiche. “Altro che marchi e filiere di mercato” dice Morisi “qui ci vorrebbero misure economiche decise a sostegno del settore. Soprattutto noi che stiamo all’interno del Parco, abbiamo problemi strutturali e di sopravvivenza; non ha senso parlare di incrementare la produzione e l’esportazione di prodotti tipici, qui a stento riusciamo a fare reddito con quel poco di animali che ci sono rimasti. Talvolta si pensa che, facendo un regolamento e coniando un marchio, i caciocavalli e le forme di pecorino inizino a piovere dal cielo come se fosse neve. Non è cosi!“. Secondo Morisi, oggi, soprattutto i pastori/allevatori abruzzesi dell’entroterra, devono affrontare forti costi di produzione ed anche una maggiore difficoltà circa l’approvvigionamento di fieno, per sostenere il bestiame durante i rigidi mesi invernali. Inoltre, la decurtazione dei fondi della PAC, la crescente burocrazia, l’aumento del costo di lavoro del personale, in aggiunta a vincoli e restrizioni imposte dai Parchi e dalla Comunità Europea, hanno contribuito, in modo significativo, al calo della produzione di tutte le aziende zootecniche locali.
Nel corso del convegno, è stato interessante notare che sia l’antropologo Lorenzoni, sia il direttore del PNALM – Luciano Sammarone – hanno usato la stessa espressione ‘essere in ginocchio’, per riferirsi alla condizione attuale di due economie diverse: il turismo e l’allevamento. Ad esempio Sammarone testualmente ha detto che “Pescasseroli sta in ginocchio perché non ha nevicato e i ristoranti sono vuoti” e Lorenzoni ha affermato che “oggi a Picinisco le attività agrosilvopastorali sono in ginocchio, soprattutto per l’aumento delle materie prime”. Ascoltando queste affermazioni, la prima cosa che viene in mente è che, all’interno del Parco, ci sono settori che stanno affrontando una profonda crisi economica e, quindi, il sistema tanto elogiato da Di Santo come ‘Modello Parco’ sta – di fatto – collassando. Quale sarebbe quindi la risposta per affrontare meglio questa crisi? Sicuramente la diversificazione verso attività non esclusivamente legate al turismo (che – ad esempio – la mancanza di neve mette in difficoltà) e neppure troppo ancorate all’allevamento di animali a stabulazione fissa e semi-fissa. In altre parole, bisognerebbe puntare su attività tradizionali che utilizzano le risorse a km zero e che sono, quindi, meno dipendenti dall’acquisto di foraggi secchi e mangimi importati. In questo contesto, spiega Morisi, l’allevamento brado e semibrado, come quello di mucche e cavalli, oltre che di ovicaprini, permette la capacità di gestire mandrie consistenti sulle aree pascolive, riducendo, così, i costi per l’acquisto di foraggi e mangimi importati. Ecco perché l’allevamento estensivo dovrebbe essere incoraggiato anziché osteggiato. Secondo Morisi, bisognerebbe concentrarsi maggiormente sulla produzione sostenibile di fieno ed erba medica, per rimettere a coltura e favorire la semina di molti di quei campi anticamente coltivati e che, adesso, sono abbandonati ed incolti. Insomma, bisognerebbe trovare tutti i modi per sostenere le economie tradizionali che dipendono maggiormente dalle risorse locali spontanee, invece di puntare, in larga parte, sul settore turistico (soprattutto invernale) che – come abbiamo visto – è molto suscettibile ai cambiamenti climatici (es. mancanza di neve). Tali, cambiamenti, purtroppo, sono destinati ad aumentare e ad inasprirsi negli anni a venire. Se non ci si muoverà in questa direzione, quel sistema che Di Santo ha definito come ‘Modello Parco’ – capace di coniugare conservazione e sviluppo – potrebbe subire presto un bel capitombolo.
Ascoltando il relatore Lorenzoni, dice Morisi, mi ha lasciato sorpreso che la sua scelta di Picinisco come area di studio è stata una scelta di ‘comodo’, ovvero, come lui stesso ha dichiarato, legata “ad un economia di viaggio, perché vengo da Roma e mi torna comodo”. Da un antropologo mi sarei aspettato motivazioni più importanti, magari legate a considerazioni scientifiche, valutazioni comparative, etc. per approdare ad una scelta ponderata, come dovrebbe essere ogni scelta di un’ ‘area pilota’, nell’ambito di una ricerca importante. Ma la cosa che mi ha lasciato ancor più perplesso, racconta Morisi, è che nell’ambito di una ricerca durata ben 12 mesi (da Gennaio 2022 a Gennaio 2023), Lorenzoni si sia focalizzato unicamente su due comuni (Pescasseroli e Picinisco) includendo soltanto tre strutture ricettive e due aziende agricole per la prima località, e 3 aziende zootecniche e due strutture ricettive per la seconda. Certamente una scelta del genere, che ha visto la partecipazione di poco più di 10 interlocutori (nonostante l’inclusione di attori collettivi invitati a partecipare a tre ‘forum groups’) è comunque molto limitante per approdare a conclusioni attendibili. Inoltre, le due categorie selezionate da Lorenzoni: gestori di strutture ricettivi e pastori (prevalentemente di pecore) non possono offrire che una prospettiva monca di un panorama socio-economico assolutamente molto più complesso e variegato che avrebbe dovuto includere anche altre categorie di allevatori: quelli di mucche, di cavalli, nonché boscaioli, artigiani, piccoli imprenditori agricoli. Insomma, non è pensabile approdare ad un’analisi dei punti deboli e di forza del Parco, senza aver incluso anche queste altre categorie!
Durante la sua presentazione, Lorenzoni ha raccontato come, da metà del secolo scorso, Pescasseroli e tutta la Valle del Sangro, abbia drasticamente stravolto il proprio assetto socio-economico, passando da attività essenzialmente agrosilvopastorali ad attività turistiche. Tuttavia, nelle parole utilizzate da Lorenzoni, si ha l’impressione che questa trasformazione (al di là dei cambiamenti epocali ed il boom economico che hanno attraversato tutta l’Italia e l’Europa di quel periodo) sia stata il risultato di una scelta ‘libera ed informata’ da parte della popolazione. Infatti, dice testualmente Lorenzoni che, da metà del secolo scorso, il paese (Pescasseroli) “ma più in generale tutta la valle del Sangro ha drasticamente stravolto il proprio assetto socio-economico, passando da attività essenzialmente agrosilvopastorali ad attività turistiche. Vuol dire che, in 20 anni, la valle ha deciso di lasciar perdere tutto quello che faceva prima, per fare qualcosa di nuovo”. “Io appartengo a questo territorio” dice Morisi “come mio padre ed i miei nonni e posso assicurare che le cose non sono andate esattamente come le descrive Lorenzoni. Man mano, la nostra gente è stata costretta ad abbandonare le attività tradizionali (non solo a causa di cambiamenti epocali: modernizzazione, industrializzazione, migrazione, etc.) ma anche perché, mentre il parco prendeva piede e potere, quei pochi che avevano deciso di non rinunciare al loro antico mestiere (ad esempio pastori e allevatori estensivi, boscaioli, mulattieri ed intero indotto) sono stati costretti a farlo a causa di restrizioni, limiti, denunce, cause in tribunale e vessazioni varie. A testimonianza di questo, è la storia del vecchio pastore (Renato Colasante detto Renaticcio) (tra l’altro tra i presenti al convegno) (Fig. 2 Renaticcio mentre prepara la ricotta, 1980). Egli fu costretto dal PNALM a smettere l’attività per sfinimento, perché perseguitato alla stregua di un pericoloso criminale, colpevole, invece, di aver solo svolto il suo lavoro di pastore di cui era profondamente innamorato e che rappresentava l’unica fonte di sostentamento per se e la sua famiglia. A causa delle molteplici e continue denunce, lo sfortunato, per diversi anni, è stato costretto a fare la spola tra Pescasseroli e il tribunale di Sulmona per presenziare alle udienze e reo, a detta del Parco, di aver impiantato abusivamente su terreno privato una stalla (Fig. 3), nella zona delle Foche, unico e necessario ricovero per i propri ovini. Tuttavia, l’area dove si trovava la stalla era classificata come Zona E3, dove la costruzione di strutture del genere era, tra l’altro, possibile. Inesorabilmente nel 1982, quella stalla venne messa sotto sequestro per ordine della magistratura, tutto questo mentre altri abusi edilizi sbucavano come funghi anche su suoli comunali e non vennero mai fermati. Quando Renaticcio andò a parlare con l’allora vice presidente del Parco, Dott. Cifarelli, per cercare di trovare una soluzione, la risposta che gli fu data fu: “lei demolisca la stalla e vada a lavorare in Germania come tanti altri”. Così, Renaticcio, nonostante le reiterate richieste e preghiere per cercare un accomodamento bonario, sia con il Comune sia con il Parco, non fu ascoltato e non ricevette nessuna clemenza. Per il Parco tiranno, Renaticcio – l’ultimo pastore di pecore di Pescasseroli – non aveva più diritto ad esistere – dovevano sparire. Con Renaticcio finiva, così, l’ultima transumanza di pecore da Pescasseroli verso le Puglie. Al poveretto – privato del suo antico mestiere e dei suoi ultimi risparmi spesi in cause legali – non restò altra possibilità che vendere tutte le sue pecore (selezionate con amore e passione per decenni) e andare eroicamente in pensione. La sua più grande frustrazione era, ed è rimasta, quella di non aver potuto tramandare al figlio le sue antiche conoscenze e la sua azienda. Così, con la resa di Renaticcio, veniva spezzata per sempre la trasmissione di quelle conoscenze centenarie legate all’allevamento di pecore e alla transumanza. Ancora oggi, nonostante il Parco dichiari di voler favorire gli allevamenti ovini in montagna (a suo avviso meno dannosi di quelli di mucche e cavalli) esso, di fatto, è stato il diretto responsabile della fine di Renaticcio, l’ultimo vero pastore di Pescasseroli.
Il giovane antropologo Flavio Lorenzoni, ovviamente tutte queste vicende non può conoscerle, a quei tempi o era in fasce o non era ancora nato! Ma, è mio dovere ricordargliele, in quanto sono Pescasserolese di nascita. La storia del mio paese, invece, è stata fatta anche da gente che, fin dall’inizio, si è opposta al Parco per difendere le proprie terre e le proprie attività tradizionali. A testimonianza di questo, voglio includere, qui, un’immagine di una delle tante manifestazioni contro il Parco, che si susseguirono a cavallo degli anni ’70 anche sotto il Comune di Pescasseroli! (Fig. 4). E’ vero, come dice Lorenzoni, che Sipari (il vero primo artefice del Parco) sia stato il promotore “di una spinta gentile del nascente neonato Parco D’Abruzzo per spostare l’attività economica dal primario al terzario” ma bisogna dire che quella gentile spinta, nelle mani delle successive dirigenze del Parco, si è tramutata in un vero spintone che ha dato grande enfasi al turismo e pochissima importanza a quelle ultime attività tradizionali che sopravvivevano ancora sul territorio, come l’allevamento estensivo. Noi Pescasserolesi, siamo figli di pastori da generazioni, ed anche questa, sarebbe stata una bella storia e una realtà unica da raccontare e far conoscere ai turisti. Invece, si è preferito farla morire (Fig. 5: Nel 1957 esistevano 36,000 pecore tra i comuni di Pescasseroli, Opi, Civitella Alfedena e Villetta Barrea).
Chirurgicamente, negli anni, il Parco ha contribuito a depotenziare molte delle attività consuetudinarie (es. taglio boschivo, pascolo, etc.) lasciandole sopravvivere strategicamente – a mo’ di ‘cartolina’ – soltanto in luoghi specifici, come Picinisco, dove si voleva mettere in mostra la coniugazione perfetta tra turismo e cultura tradizionale. Poco è importato al Parco se poi, al di fuori di queste bacheche e cartoline preconfezionate e reclamizzate, l’allevamento estensivo, sul resto del territorio, fosse osteggiato da limiti, divieti e vessazioni. “Non possiamo negare questa realtà, altrimenti ci prendiamo in giro!” Dice Morisi. L’atteggiamento ottuso del Parco, gli ha impedito, oggi come in passato, di svolgere il proprio ruolo e cioè garantire i diritti dei residenti unitamente alla conservazione e allo sviluppo socio economico del territorio. Anticipando la sfida del futuro, l’Ente Parco avrebbe dovuto accompagnare le piccole economie di sussistenza ancora esistenti – ad affrontare, al meglio, le inevitabili trasformazioni avvenute, tutelandole per il loro valore culturale, storico ed identitario e per la tipicità delle loro produzioni (es. casearie). Purtroppo, tutto ciò non è avvenuto ed il Parco, invece, ha accelerato la fine di queste piccole realtà locali, le uniche profondamente ancorate al territorio. Aggiunge Morisi “Peccato, però, che Lorenzoni – l’unico relatore che ha presentato dei dati di ricerca concreti – non sia stato in grado, in un anno di lavoro sul campo, di imparare a distinguere una capra da una pecora e che abbia commentato una delle sue foto così: “questo è un pastore di Picinisco che sta mungendo le capre”. In effetti, gli animali munti da quel pastore, in quella specifica immagine, erano pecore!”.
Dopo aver partecipato a questo convegno, dice Morisi, c’è un’ultima riflessione che mi è venuta in mente e che è condivisa anche da molti dei miei colleghi: “abbiamo avuto l’impressione che tutti quegli accadimenti che per noi sono motivo di frustrazione, vera sofferenza e talvolta disperazione come, ad esempio, predazioni da lupo, limiti di accesso ai pascoli, la mancanza di ascolto da parte della dirigenza del Parco, etc. sono, dalla prospettiva degli antropologi, soltanto degli straordinari, interessanti e stimolanti spunti di ricerca da approfondire, o meglio opportunità per sperimentare nuove metodologie e scrivere nuove ricerche e ricevere finanziamenti. Ma noi, allevatori e gente del territorio, non vogliamo sentirci oggetto di ricerca, ne’ da parte degli antropologi, ne’ da parte di nessun altra tipologia di ricercatore. Non vogliamo essere inclusi in progetti di studio soltanto perché c’è bisogno di dimostrare ai donatori che la controparte locale è stata informata e coinvolta. Noi non siamo topi da laboratorio, siamo i Custodi del Territorio! Per questo vogliamo che la nostra voce sia ascoltata, invece di essere reinterpretata dai cosiddetti esperti e studiosi di scienze sociali. Vogliamo essere soggetti attivi in tutte le decisioni che riguardano la gestione delle risorse naturali che i nostri padri – e chi prima di loro – hanno utilizzato con saggezza, rispetto e lungimiranza”.
Dario Novellino