[lid] La Stampa, 14 novembre: “Musei Reali costretti alla retromarcia”, “Scivolone sul colonialismo”, “La direttrice si scusa”.
Il Giornale, 15 novembre: “Il museo si scusa per le bugie sul colonialismo in Somalia”.
«Chiaro e tombale – aveva già dichiarato Alberto Alpozzi – in Somalia non vi furono soprusi e lavoro coatto. Lo ha confermato la direzione dei Musei Reali di Torino: l’Italia in Somalia debellò lo schiavismo e introdusse contratti di lavoro.
Sono anni che lo scrivo e lo denuncio. Ne ho scritto nei miei libri. Ora è arrivata la conferma.»
«Ma l’ammissione della direttrice Pagella – prosegue Alpozzi – cui va la mia stima per l’onestà intellettuale, non deve essere stata digerita dato l’intervento della professoressa Pennacini ma che deve essere stato considerato inefficace. Se no non si spiegherebbe perché La Stampa ha dato spazio anche a Gianni Oliva che cerca di riportare ordine: “il giudizio sul colonialismo non cambia”.»
Alpozzi commenta: «I fatti, i documenti non contano. Contano però i giudizi, le opinioni, la partigianeria, l’appartenenza. Oliva proviene dal PCI. Io non ho tessere di partito. Oliva si fa forza citando giudizi, non fatti o documenti. Fa riferimento a diversi autori, tra storici, giornalisti, amici, amici storici, amici giornalisti.»
Il saggista torinese prosegue a spiegare nel dettaglio: «Oliva stranamente non fa menzione delle dichiarazioni che Del Boca rilasciò il 6 gennaio 2011 al Corriere della Sera ammettendo la sua parzialità e faziosità: “Lo ammetto, nelle mie ricostruzioni sulla guerra in Africa orientale mi sono schierato dalla parte degli etiopi. Sono da sempre un nemico del colonialismo e […] avevo un’enorme ammirazione per il negus Hailé Selassié”.»
Sull’intervento di Oliva su La Stampa del 16 novembre, Alpozzi chiarisce:
«Cita poi Rochat, ma non quando nel volume Le guerre coloniali del fascismo (Laterza, Roma, 2009) curato dallo stesso Del Boca, scrisse sulla guerra d’Etiopia che “le armate abissine non erano molto cambiate dai tempi di Adua”, asserzioni non solo in netto contrasto con le evidenze storiche ma anche contrarie alle affermazioni dello stesso Del Boca, che invece scriveva: “Hailè Selassiè si è reso ormai conto che la guerra è inevitabile. Non gli resta che cercare di porre il Paese in grado di difendersi, accelerando l’istruzione dell’esercito, creando un embrione di aviazione e acquistando (ma fortemente osteggiato dall’Italia) armi moderne sui mercati europei.”
Affermazione quella di Rochat contraria anche a quella del Mockler in Il mito dell’Impero, (Rizzoli, Milano, 1977): “Hailè Selassiè aveva passato la maggior parte dell’anno precedente a migliorare il suo esercito”.
Sempre di Rochat non riporta che sostenne che “gli abissini non disponevano di aviazione né di artiglieria contraerea” in netto contrasto con il Mockler: “Il 15 marzo 1934, nove mesi prima di Ual Ual, si era tenuta ad Addis Abeba una parata militare, a Janhoy Meda, la base dell’aviazione etiope che – con l’acquisto di altri 6 aeroplani – saliva a dodici all’inizio della guerra”. Quindi Mockler, università di Cambridge, non conta.
Oliva cita poi Nicola Labanca, ma non quando in Oltremare (Il Mulino, Bologna, 2002) scrisse che “l’Etiopia schierò forse 250.000 soldati”. «Forse». Secondo la Treccani significa: “senza certezza, senza assoluta sicurezza; indica in genere dubbio, incertezza circa quanto si afferma”. Il Mockler invece riporta che “l’Etiopia poteva mobilitare due milioni di uomini”, quasi dieci volte il numero espresso con quel “forse”. Forse Labanca era meglio non citarlo. Ma era amico di Del Boca e lo cita nei suoi libri.»
Alpozzi suggerisce a Oiva che «avrebbe potuto menzionare Denis Mack Smith storico britannico, laurea a Cambridge, membro della British Academy, del Wolfson College dell’Università di Cambridge, dell’All Souls College dell’Università di Oxford e dell’American Academy of Arts and Science, il quale in Le guerre del Duce (Laterza, 1976, III capitolo, “Colonie (1922-1932)”, pag. 46), riporta quanto segue: “Nelle colonie furono riversati ininterrottamente fiumi di denaro, con guadagni assai scarsi, e la bilancia commerciale, a dispetto di tutte le speranze, in nessun momento favorevole all’Italia. Gli amministratori coloniali italiani fecero spesso un buon lavoro e talvolta ottimo. Costruirono vaste reti stradali; e in qualche caso le popolazioni ricevettero – dall’abolizione giuridica della schiavitù, dal controllo delle epidemie e delle carestie e dall’amministrazione della giustizia – vantaggi più concreti che le popolazioni delle vicine colonie britanniche. Il contenimento delle guerre intertribali in Somalia fu un risultato importante. Furono concesse, in una misura inconsueta negli imperi coloniali dell’epoca, le libertà di espressioni, di riunione, di insegnamento e di proprietà.
L’Italia fascista fu più generosa di ogni altra potenza, e i risultati furono talvolta imponenti.
Un gran numero di disoccupati fu importato dall’Italia per costruire alberghi, ospedali, scuole e quattromila chilometri di strade asfaltate”.»
Precisa ancora Alpozzi: «Ma non lo cita, se no l’analisi di un professore emerito smentirebbe il suo giudizio: “il colonialismo italiano è stato violento e rapace, come tutti i colonialismi”.
Oliva prosegue strenuamente la difesa delle opinioni delbochiane con la solita tirata contro il Governatore della Somalia: terrore, repressioni, brutalità. Tutto il solito corollario di abile scelta di aggettivi frastornanti e negativi messi in campo in pochissime pagine somale da Del Boca, che concentrò più che altro le sue ricerche sull’Etiopia.
Ci sono poi gli stranieri, ma tra gli studiosi d’oltralpe, di nuovo non troviamo il Mockler: “de Vecchi deve essere stato più intelligente e più abile di quanto si pensava poiché per la fine del suo mandato aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi […] Quando il de Vecchi se ne andò, poco prima della firma del trattato di amicizia con l’Etiopia nel 1928, lasciò dietro di sé una colonia modello”.
Allora rimaniamo in Italia? No. Non cita nemmeno Aldo A. Mola (in “Il Parlamento Italiano 1861-1988“): “Malgrado i limitatissimi mezzi bellici e finanziari messigli a disposizione da Roma in colonia egli avviò altresì la realizzazione di un imponente piano di opere civili: bonifiche, strade, costruzione di scuole, erezione di opere pie, promuovendo lo sviluppo dell’agricoltura, di industrie conserviere e il commercio, non senza apprezzabili risultati. Del pari cercò di estirparvi definitivamente la schiavitù, ancora in uso”.»
Prosegue l’analisi dell’intervento di Oliva: «Chiude l’apologia dell’anticolonialismo: “lasciamo dunque che il Museo corregga una svista” che definisce solamente “lessicale”.
No Oliva – precisa Alpozzi – non è una svista, è un errore, e non è una questione lessicale ma storica e fattuale. Il linguaggio è una convenzione, non una opinione, come della storia già è stato fatto.»
«Nelle ultime righe autorizza (grazie per il permesso) – ringrazia ironicamente Alpozzi – a “riscrivere una diversa storia dell’Italia coloniale, fondata su nuovi documenti e condotta con criteri scientifici” e “non con le polemiche”.
Mi duole puntualizzare che è già stato fatto, ma ci si dovrebbe documentare anziché continuare a leggere solamente Del Boca e chi pubblica testi citandolo senza aver svolto una nuova e originale ricerca. Ma si sa: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.
Eppure una “diversa storia dell’Italia coloniale” è già stata scritta, non da me, ma da tutti i professori e storici stranieri che non vengono citati. Ad esempio Mohamed Issa Trunji, già consigliere Giuridico per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con il volume “Somalia – The untold history” (Looh Press, London, 2015).»
Alpozzi suggerisce qualche spunto per future riflessioni «su, non una nuova storia coloniale, ma una storia condivisa, sincera, leale e che possa rappresentare l’Italia tutta.
Giuseppe Brusasca, Sottosegretario dell’Africa Italiana, antifascista e fondatore, dopo l’8 settembre, della la divisione autonoma Patria, a Milano l’8 febbraio 1948, così espresse il suo punto di vista sulla questione coloniale italiana:
“Il nostro compito è quello di discutere e di difendere la civiltà che abbiamo portato in Africa poiché noi non siamo andati in Africa per una speculazione colonialistica, ma recando il nostro lavoro. Siamo stati sconfitti e coperti di calunnie; ma malgrado ciò gli indigeni ci invocano, mentre altrove gli amministratori stranieri tendono ad essere scacciati”.
Nel medesimo anno a Genova dichiarò: “la Somalia è una creazione del lavoro italiano, in Somalia non ci siamo sostituiti a nessuno, non abbiamo trovato null’altro che il deserto privo di risorse. Quello che oggi c’è, è tutto opera del lavoro italiano che in collaborazione col lavoro dei somali ha creato dal nulla le basi per la prosperità del territorio e per il benessere delle popolazioni”.
Dello stesso avviso fu anche il Presidente della Somalia Mohamed Siad Barre nel 1978 quando incontrò Pertini in Italia. Ricordate l’incontro quando disse che i somali verso l’Italia non avevano che gratitudine?
Nel 1941 Hailè Selassiè dichiarò: “Sono molto dolente che le circostanze di questa guerra non consentano di fare la conoscenza personale del generale Nasi, verso il quale professo la più alta ammirazione e la più viva riconoscenza per le direttive di politica indigena, inspirata ad un largo senso di giustizia e di umanità, da lui adottate e imposte durante tutto il periodo del suo vice-governatorato generale. Le migliaia di abissini da me interrogati dopo il mio ritorno in Etiopia mi hanno fatto, senza eccezioni, unanimi commoventi grati elogi del trattamento usato dal generale Nasi verso le popolazioni native dell’impero».
E sono sicuro che non sia necessario precisare che quanto riportato sopra e che segue fu scritto proprio da Del Boca in Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero: «gli etiopici non tardarono molto ad accorgersi che gli inglesi liberatori […] ostentavano un disprezzo, un distacco razziale, di cui, in genere, gli italiani non erano capaci”.
Dichiarazioni confermate il 6 luglio 1965 dall’allora ministro per la Riforma dell’Amministrazione Luigi Preti.
Conclude infine Alpozzi: «Vogliate scusarmi se vi ho tediato a lungo con documenti, prove, fatti, dichiarazioni ma essi richiedono tempo e approfondimento non come le opinioni con le quali potete sostenere tutto il contrario di tutto.
Da giornalista e ricercatore è normale mettere a disposizione del lettore materiali e strumenti, senza giudizio, contro il relativismo informativo, affinché si crei quella consapevolezza che i soliti dogmi precotti possono essere parziali, falsi e manipolati.
Nessuno ha contestato ancora una sola affermazione dei miei articoli, dei miei libri e la veridicità delle mie critiche.
Ho smentito decenni di mistificazioni con i fatti e con i documenti ufficiali, non fosse così non sarebbero state necessarie per cercare di rimediare due pagine su La Stampa, una docente universitaria e uno storico affermato, avulso dalla mostra in oggetto.»