(AGENPARL) - Roma, 15 Settembre 2023(AGENPARL) – ven 15 settembre 2023 Introduzione e contesto
In Italia, la povertà assoluta è purtroppo un problema cresciuto sempre più negli anni. Gli ultimi
dati forniti dall’ISTAT nel giugno 2022 ci restituiscono una fotografia preoccupante.
Dati ISTAT 15/05/2022. Elaborazione AcP
Nel 2021, erano in condizione di povertà assoluta poco più di 1,9 milioni di famiglie (7,5% del
totale) pari a circa 5,6 milioni di individui (9,4% come l’anno precedente). Il disagio è stato più
marcato per le famiglie con figli minori, per le quali l’incidenza passa dall’8,1% delle famiglie con
un solo figlio minore al 22,8% di quelle che ne hanno da tre in su. Valori elevati si registrano anche
per le coppie con tre o più figli (20,0%) e per le famiglie di altra tipologia, dove spesso coabitano
più nuclei familiari (16,3%). Ancora elevata la povertà assoluta tra gli stranieri, che sono oltre un
1,6 milioni, con una incidenza pari al 32,4%: oltre quattro volte superiore a quella degli italiani
(7,2%). Le famiglie in povertà assoluta sono, nel 68,7% dei casi, famiglie di soli italiani (quasi 1
milione e 350mila) e per il restante 31,3% famiglie con stranieri (oltre 614mila), pur
rappresentando queste ultime solo il 9% del totale
La situazione è stata parzialmente mitigata dalle misure di contrasto alla povertà assunte nel
nostro Paese e introdotte nel 2018 che, seppur in parte non abbiano coinvolto le persone in
povertà assoluta, ne hanno comunque contenuto l’andamento a fronte del peggioramento delle
condizioni del Paese, in specie causa COVID. In particolare, in relazione al RDC (e PdC), secondo il
Rapporto sulla politica di bilancio – giugno 2023, redatto dall’Ufficio Parlamentare del Bilancio
(UPB), elaborando i dati INPS, “a partire da aprile 2019, i nuclei beneficiari del RdC e della PdC
(inizialmente pari a 570.000) sono cresciuti costantemente, fatta eccezione per i mesi iniziali e
ottobre del 2020 (sospensione obbligatoria dopo i diciotto mesi di fruizione), fino a raggiungere 1,4
milioni di nuclei familiari a luglio del 2021; nei mesi successivi è iniziata una graduale diminuzione
proseguita anche nei primi mesi del 2023” .
1
La riforma in atto
Come noto, con il DL 48/2023, convertito con L. 85/2023, il Reddito di Cittadinanza è stato
sostituito da due nuove misure: la prima è uno strumento di contrasto alla povertà e di sostegno
all’inclusione sociale (l’Assegno di Inclusione) rivolto ad alcune categorie di famiglie; la seconda è
un provvedimento diretto a chi versa in condizione di povertà nella fascia di età 19-59 anni, teso a
favorire l’inserimento o il ritorno al lavoro attraverso percorsi di formazione e orientamento.
L’Assegno di Inclusione interviene in particolare sulla platea dei beneficiari (famiglie con
all’interno: un minore, o un over 60; o un disabile; o componenti in condizione di svantaggio e
inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla
pubblica amministrazione) e sulle risorse appostate.
L’UPB, nel Rapporto sopra citato, ha elaborato alcune stime circa le conseguenze per i beneficiari
dell’Assegno in confronto a quelli del RdC, precisando che tali elaborazioni sono precedenti alle
ultime correzioni al testo, che hanno leggermente ampliato la platea dei beneficiari:
“Dei quasi 1,2 milioni di nuclei beneficiari di RdC [NDR: al dicembre 2022], circa 400.000 (il
33,6 per cento) sono esclusi dall’AdI perché al loro interno non sono presenti soggetti
tutelati. Dei restanti 790.000 nuclei in cui sono presenti soggetti tutelati, circa 97.000 (il
12,1 per cento) risulterebbero comunque esclusi dalla fruizione dell’AdI per effetto dei
vincoli di natura economica. Nel complesso, dunque, i nuclei beneficiari dell’AdI
risulterebbero poco più di 690.000, circa il 58 per cento degli attuali beneficiari del RdC.
In termini di individui, i soggetti non beneficiari dell’AdI sarebbero circa 823.000 (un terzo
circa dei percettori del RdC), di cui 553.000 per effetto dell’esclusione dei nuclei senza
tutelati e 270.000 appartenenti a nuclei tutelati ma esclusi per effetto dei vincoli di
carattere economico.
Nel complesso circa l’88 per cento dei disabili, degli over 60 e dei minori percettori di RdC
potrebbero continuare a beneficiare dell’AdI, una circostanza rilevabile solo per meno della
metà dei soggetti in età da lavoro.” (pag. 151)
Circa le risorse destinate all’Assegno di Inclusione, esse vanno da 5,615 miliardi di euro del 2024 a
salire fino a 6,258 miliardi di euro del 2033. Anche in questo caso, l’UPB nel medesimo rapporto fa
un confronto tra risorse del RdC e risorse dell’AdI:
“In termini di benefici complessivi la soppressione del RdC e l’introduzione dell’AdI
comportano per le famiglie precedentemente percettrici di RdC una riduzione netta dei
trattamenti di circa 2,5 miliardi su base annua, sostanzialmente dovuti all’esclusione dalla
misura dei nuclei in cui non sono presenti disabili, minori e over 60 (tab. 4.2). Si riducono per
circa 216 milioni i trattamenti dei nuclei tutelati esclusi dall’AdI per effetto dei vincoli di
natura economica. Per questi ultimi la perdita del RdC viene parzialmente compensata
dall’incremento dell’Assegno unico, erogato in precedenza solo in misura parziale.
Le risorse destinate ai nuclei beneficiari dell’AdI nel complesso ammontano a circa 6,1
miliardi (considerando AdI e Assegno unico) e sostanzialmente equiparano i trattamenti
ricevuti nel regime previgente, con un saldo positivo di circa 188 milioni. “ (pag 152)
Il DL 48/23 contemplava, nella sua versione originaria, alcuni elementi migliorativi rispetto al RdC:
la separazione dell’Assegno unico per i figli, che determina un maggior beneficio anche se solo per
alcune famiglie con minori; la franchigia di 3.000 euro, che consente un cumulo parziale del nuovo
reddito da lavoro con il sussidio.
2
Il percorso parlamentare di conversione ha previsto qualche miglioramento ulteriore in alcune sue
parti: l’ampliamento della platea dei beneficiari e la conseguente rimodulazione della scala di
equivalenza, con l’introduzione dei componenti in condizione di svantaggio inseriti in programmi
di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali e il connesso aumento del finanziamento
di 42 milioni di euro; la possibilità per gli interessati alla misura di essere impegnati su progetti utili
alla collettività, gestiti dai Comuni o dalle Amministrazioni pubbliche, anche con la collaborazione
degli Enti del Terzo Settore, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo, e di
tutela dei beni comuni; il coinvolgimento dei CAF per la presentazione delle domande.
Vi sono però anche alcune importanti criticità che non hanno trovato possibilità di correzione nel
passaggio in Parlamento: prima fra tutte, la destinazione ancora eccessivamente categoriale, che
esclude coloro che sono ritenuti occupabili in base ad un criterio anagrafico, privando così
dell’accesso alla nuova misura il 42% dei beneficiari il Rdc; la nuova scala di equivalenza, che non
include tutti i componenti del nucleo familiare che riceve l’AdI e che comporta sensibili differenze
di beneficio a seconda della composizione e dell’età dei medesimi; la riduzione della soglia
reddituale di accesso per coloro che sono in locazione, che rischia di escludere dalla platea alcuni
nuclei familiari in difficoltà economica e senza una propria abitazione; la mancanza di
un’indicizzazione della misura, difetto che già presentava il RdC, ma che diventa ancor più
rilevante di fronte alle fiammate inflazionistiche che si sono registrate nell’ultimo biennio.
3
1. Beneficiari
1 a. Contesto e problemi
I nuclei familiari beneficiari di almeno una mensilità del RdC sono stati nel 2022 circa 1,7 milioni,
con un costo per le casse dello Stato di circa 8 miliardi. La distribuzione territoriale della
prestazione (sempre nel 2022) è prevalentemente orientata verso il mezzogiorno, dove risiede il
62% dei nuclei beneficiari, mentre il 22% risiede al nord e il 16% al centro. Se si effettua un
confronto con l’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione residente (fonte UPB), si vede
che la percentuale di beneficiari riceventi il RdC si avvicina a quella dei poveri assoluti nel
mezzogiorno (8,6% contro 11,4%), mentre nel centro rappresenta solo il 40% e nel nord non
raggiunge neppure il 20%. Tenendo anche conto che una quota di percettori del RdC non è in
povertà assoluta, e che il costo della vita mostra evidenti differenziazioni territoriali, risulta
evidente che la copertura della prestazione è nelle regioni del centro e del nord piuttosto
contenuta rispetto al bisogno.
Dal punto di vista della composizione familiare, la distribuzione dei percettori del RdC mostra
inoltre un evidente sbilanciamento nei confronti delle famiglie monocomponenti (ben oltre il 40%)
e bicomponenti (superiori al 20%), mentre risultano poco coperte in particolare le famiglie
numerose (quelle con almeno 5 componenti), che rappresentano solo il 6% del totale. Questa
distribuzione risulta senz’altro sbilanciata rispetto all’attuale composizione delle famiglie italiane,
poiché dai dati annuali Istat sull’incidenza della povertà risulta invece che proprio le famiglie con
minori, come già evidenziato, e in particolare quelle numerose presentano i valori più critici.
Era dunque auspicabile una riforma della misura di sostegno minimo al reddito che potesse
rendere la platea dei percettori più consona con quella delle famiglie in povertà, nonché gli importi
del beneficio più rispondenti ai bisogni delle medesime. L’Alleanza aveva negli scorsi anni proposto
una serie di modifiche in tal senso (su scala di equivalenza, vincoli anagrafici, soglie patrimoniali,
ecc.).
Il nuovo Assegno d’Inclusione (AdI) opera invece per sottrazione, sulla base dell’ipotesi che non
occorra una misura di reddito minimo universale ancorché selettiva, bensì sia sufficiente un
sostegno reddituale solo per le famiglie con componenti in situazione di fragilità. Si parte dal
presupposto che le risorse finora destinate al RdC fossero sovradimensionate e che la loro
destinazione nei confronti di individui considerati per la loro età occupabili non fosse giusta, ma
anzi determinasse un disincentivo all’offerta sul mercato del lavoro. La tabella seguente mette a
confronto la platea di beneficiari (in migliaia) delle due misure, secondo le nostre stime, in base al
numero dei componenti dei nuclei familiari interessati:
Famiglie beneficiarie (in migliaia)
Numerosità familiare
RdC Composizione % AdI Composizione % Differenza Variazione %
Un componente 724 42% 303 35% -421 -58%
Due componenti 353 21% 216 25% -137 -39%
Tre componenti 265 15% 150 18% -115 -43%
Quattro o più
375 22% 185 22% -190 -51%
componenti
4
A una simile riduzione della platea dei beneficiari, intorno al 50% (le stime dell’UPB, effettuate su
una banca dati leggermente diversa poiché riferita ai beneficiari nel mese di dicembre 2022,
indicano una riduzione del 42%)1, si accompagnerebbe un incremento sostanziale del beneficio
medio annuale, che aumenterebbe circa di 70 euro al mese. Complessivamente la riforma
genererebbe un risparmio annuo pari a circa 3,6 miliardi. Tale stima sembra differire
sostanzialmente da quella dell’UPB. In realtà essa non include la variazione della spesa per
assegno unico indotta dall’introduzione dell’Adi, che determina una variazione di spesa di circa un
miliardo. Tenendo conto di questa le due stime non differiscono particolarmente in termini di
costo.
A fronte di un numero di famiglie che perdono la misura assai consistente (929.000), a causa
prevalentemente dei vincoli categoriali restrittivi imposti nonché della riduzione della soglia di
accesso per le famiglie in locazione e della modifica della scala di equivalenza, si registra un
ingresso di nuovi percettori assai inferiore (66.000), legato in gran parte all’allentamento del
vincolo di residenza (da 10 a 5 anni) e in parte minore alla modifica della scala di equivalenza.
Nonostante il notevole ridimensionamento della platea dei beneficiari, il loro riequilibrio
percentuale in favore dei nuclei con più componenti è inferiore a quanto si potesse immaginare,
sebbene in termini assoluti vi sia una forte diminuzione delle monocomponenti (restano
sostanzialmente gli over 60 ed i disabili), che invece è un effetto desiderato da parte del governo.
Infatti, a causa della diversa scala di equivalenza e della riduzione della soglia di accesso per le
famiglie in locazione, diminuiscono sensibilmente come evidenziato in tabella anche i nuclei con
più componenti.
Anche la distribuzione territoriale non sembra che risulti sensibilmente modificata, anzi i nuclei
beneficiari nel mezzogiorno si ridurrebbero in termini percentuali di meno rispetto a quelli nel
nord e nel centro, dunque la ripartizione territoriale resterebbe sbilanciata in favore dei primi che
rappresenterebbero sempre poco meno del 60% degli interessati, sebbene occorra ricordare che il
livello di povertà è senz’altro maggiore nelle regioni meridionali.
Infine le nostre stime (analogamente a quelle dell’UPB) rilevano una notevole diminuzione dei
beneficiari AdI rispetto al RdC (l’80%) nelle classi reddituali più elevate (reddito familiare sopra i
7.500€), a causa dei nuovi requisiti categoriali ed economici richiesti. La nuova misura dunque
tende a perdere maggiormente una delle principali caratteristiche di un reddito minimo, ovvero
quella di integrazione di un reddito considerato insufficiente, per diventare una misura in larga
prevalenza rivolta verso chi presenta redditi particolarmente contenuti o nulli.
Questo effetto è in parte legato alla riduzione della soglia reddituale di accesso per coloro che
sono in locazione: una riduzione che noi non riteniamo adeguata, poiché soprattutto per chi si
trova in una difficile condizione economica un sostegno per l’abitare, a maggior ragione data la
peculiare restrizione categoriale dei percettori introdotta, può risultare fondamentale. Se il
problema consisteva in una certa rigidità della componente affitto, la si sarebbe potuta modulare
diversamente, anche riequilibrandola rispetto a quella reddituale, piuttosto che togliere
improvvisamente il sostegno all’abitare a chi dispone di risorse economiche assai contenute.
Oltretutto, questo potrebbe incentivare il sommerso nei confronti di alcune locazioni.
1 Nelle nostre stime (come in quelle dell’UPB) per ragioni inerenti al modello di simulazione utilizzato non è stato
possibile includere i nuclei familiari con fragilità già in carico presso i servizi sociali certificati dalla P.A., che invece
sono stati inclusi dalla Legge nella potenziale platea dei beneficiari, grazie ad un apposito emendamento approvato
nel corso dell’iter parlamentare. Di questo occorre tener conto per la valutazione delle percentuali riportate.
5
1 b. Proposta
Come evidenziato nel corso dell’audizione parlamentare, non abbiamo condiviso l’abbandono del
principio di universalismo selettivo e l’introduzione di un meccanismo categoriale. Tutto ciò, al
momento dell’approvazione definitiva della legge ci è apparso come un significativo passo
indietro, anche per le conseguenze sociali che potrebbero rilevarsi.
Riteniamo che l’obiettivo principale che ci si dovrebbe porre sia quello di un ritorno a una misura
universale, che sia rivolta in favore di tutti quei nuclei familiari che si trovano in una difficile
condizione economica, indipendentemente dall’età dei loro componenti. Il superamento del
vincolo categoriale dell’AdI legato all’età, connesso ad un’inclusione nella scala di equivalenza di
tutti quei soggetti con età tra 18 e 59 anni oggi esclusi, comporterebbe per la misura un aumento
molto rilevante dei nuclei aventi diritto (diventerebbero complessivamente poco meno di 1,5
milioni), una crescita degli importi medi (+310€ annui) ed una notevole lievitazione dei costi, che
raggiungerebbero 9 miliardi annui, più elevati di quelli relativi al RdC e superiori di 4 miliardi
rispetto a quelli previsti per l’AdI.
Come risulta evidente, il ritorno all’universalismo selettivo richiede dunque una particolare
attenzione sull’eventuale ridisegno dello strumento e un impiego di risorse sostanziale.
Si tratta di un obiettivo importante, non indipendente dalle scelte di politica di bilancio che
saranno conseguite dal Governo, che dovrà impegnarsi a reperire le risorse necessarie anche
attraverso il sostegno delle politiche comunitarie.
Riteniamo, intanto, necessario reintrodurre la soglia reddituale di accesso differenziata per
coloro che sono in locazione a 9.360€.
I risultati di questa proposta sono illustrati nella seguente tabella:
Famiglie beneficiarie Importo medio annuo Spesa annuale (in
Proposta di riforma dell’AdI (in migliaia) (in euro) miliardi di euro)
RdC AdI RdC AdI RdC AdI
Come si vede questa modifica comporterebbe un costo annuale aggiuntivo assai contenuto, pari a
150 milioni, a fronte di un aumento della platea degli aventi diritto non trascurabile (145mila
nuclei). La riduzione dell’importo medio del beneficio conferma che si tratta di famiglie che si
trovano ad avere già un reddito, dunque prevalentemente di working poor che potrebbero in tal
modo ricevere un piccolo ma importante sostegno dallo Stato per pagare l’affitto.
6
2. Il vincolo anagrafico per gli stranieri
2 a. Contesto e problemi
Nel passaggio dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione, sono stati modificati
parzialmente i requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno richiesti per accedere alla misura di
sostegno. Il legislatore ha apportato un primo miglioramento con la riduzione del vincolo di
residenza da 10 a 5 anni e con la previsione del riconoscimento della misura anche ai titolari dello
status di protezione internazionale. Due avanzamenti dettati dalla violazione delle norme
comunitarie della precedente normativa, in relazione alla possibilità di accesso per i cittadini
stranieri: era stata aperta una procedura di infrazione da parte della Commissione UE ed era già
intervenuta INPS, nella predisposizione della modulistica, che comprendeva anche i permessi di
soggiorno per protezione internazionale, erroneamente esclusi dal decreto-legge n.4/2019
istitutivo della misura.
L’elemento discriminatorio, per quanto indiretto, della previsione di 10 anni di residenza (di cui gli
ultimi 2 continuativi) era comprovata dai dati sui beneficiari del RdC: tra questi, la percentuale di
cittadini non italiani non era in alcun modo corrispondente ai dati demografici sulla presenza di
popolazione straniera in povertà in Italia.
Le previsioni della nuova normativa dovrebbero, dunque, generare un ampliamento della platea di
beneficiari con cittadinanza straniera. Secondo la Relazione Tecnica del decreto-legge 48/2023, il
moltiplicatore da applicare per quantificare l’aumento della popolazione straniera è 1,60 e,
secondo il Servizio di Bilancio del Senato, quindi, la stima dell’incremento di nuclei beneficiari, a
fronte della riduzione da 10 a 5 anni del requisito di residenza, è pari a 45.000: una stima calcolata
a partire dal dato sulla popolazione straniera che nel passaggio dal Rdc (125.000 nuclei) al nuovo
strumento continuerà a fruirne (75.000), per un totale di percettori ipotetici, quindi, pari a
130.000. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha proposto una stima leggermente superiore,
ipotizzando 50.000 nuclei, pari a 148.000 persone in più, per una spesa annua di 360 milioni.
Questa riduzione del vincolo di residenza, pur andando nella giusta direzione, non è però ancora
sufficiente a rispondere né alla necessità che uno strumento di contrasto alla povertà sostenga
tutte le persone in povertà in ragione della loro condizione economica e non di altri vincoli, né alla
violazione delle disposizioni comunitarie che hanno portato alla procedura di infrazione nei
confronti dell’Italia sul Reddito di Cittadinanza e che potrebbero, quindi, portare a un nuovo
procedimento.
Nella comunicazione diffusa dalla Commissione Europea il 15 febbraio 2023, in cui si annuncia
l’avvio della procedura, si chiariscono, infatti, i diversi profili di violazione del diritto comunitario
che sussisterebbero anche con il requisito richiesto dei 5 anni di residenza:
? a norma del Regolamento UE n.492/2011 e della direttiva 2004/38/CE le prestazioni di
sicurezza sociale devono essere pienamente accessibili ai cittadini UE indipendentemente
da dove abbiano soggiornato prima, e, in particolare, i cittadini UE non impegnati in attività
lavorativa devono poter accedere alla prestazione alla sola condizione di essere residenti
da 3 mesi;
? la direttiva 2003/109/CE prevede che i soggiornanti di lungo periodo provenienti da paesi
terzi abbiano accesso alla prestazione al pari dei cittadini UE.
7
La Commissione, dunque, ha già evidenziato come il requisito della residenza protratta per
accedere a una prestazione sociale sia una violazione del diritto comunitario in materia di libera
circolazione dei lavoratori, diritti dei cittadini e soggiornanti di lungo periodo, andando a
penalizzare sia i cittadini dell’Unione Europea, sia i cittadini di paesi terzi, sia gli stessi cittadini
Italiani, i quali perderebbero la possibilità di accedere alla prestazione in caso di trasferimento
all’estero per un periodo di lavoro.
2 b. Proposta
Una misura di sostegno al reddito, finanziata peraltro dalla fiscalit à? generale (dunque dalle
imposte versate da tutti i residenti) non dovrebbe creare discriminazione alcuna, tantomeno sulla
base della cittadinanza. Pertanto su queste basi, chiediamo di accelerare l’allentamento del
vincolo di residenza portando gli attuali 5 anni, su un più? ragionevole livello di 2 anni. Questa
riduzione, da una prima simulazione, potrebbe portare a un incremento di 15.000 famiglie
beneficiarie a fronte di un costo piuttosto contenuto pari a 120 milioni annui.
8
3. Scala di equivalenza
3 a. Contesto e problemi
La scala di equivalenza del RdC presentava almeno due evidenti difetti: dava un peso troppo
contenuto ai minori (pari alla metà di quello dei maggiorenni); aveva un tetto massimo troppo
basso. A confronto con le scale di equivalenza principalmente usate risultava dunque crescere in
maniera troppo lieve all’aumentare dei componenti di minore età per poi appiattirsi in
corrispondenza di nuclei familiari non ancora numerosi. Come effetto determinava un accesso alla
misura e un importo della prestazione sbilanciato a danno delle famiglie con minori in particolare
se numerose. L’Alleanza aveva già richiesto la parificazione della scala di equivalenza a quella
dell’ISEE o almeno la parificazione del peso dei minori a quello dei maggiorenni, con contestuale
aumento del tetto massimo.
Dal 2022 l’introduzione dell’assegno unico universale (AUU) ha permesso di accrescere
sostanzialmente il sostegno in favore dei nuclei con minori anche per le famiglie beneficiarie del
Rdc, che hanno potuto integrare la prestazione con l’AUU sebbene in misura parziale,
determinando una soluzione soddisfacente per uno dei problemi legati alla scala di equivalenza.
Restava invece irrisolto l’altro problema che determinava un accesso ridotto al RdC per le famiglie
con minori in particolare rispetto alla loro situazione economica.
L’AdI modifica drasticamente la scala di equivalenza e consente un cumulo completo della
prestazione con l’AUU. Quest’ultima scelta è senz’altro positiva e permette ad alcune famiglie con
minori di ricevere un importo complessivamente maggiorato delle due prestazioni a confronto di
quello che si riceve con l’RdC. Si tratta tuttavia solo delle famiglie con almeno un minore di età
inferiore a tre anni, o con 3 minori, oppure con un componente disabile o non autosufficiente.
Queste tre tipologie familiari sono infatti ritenute degne di carichi di cura, mentre al contrario la
nuova scala di equivalenza esclude dal computo tutte i componenti maggiorenni che non hanno
tali carichi. Non si tratta dunque di una vera e propria scala di equivalenza, bensì di un coefficiente
moltiplicativo che dipende sì dal numero dei componenti ma in particolare anche dalla loro età.
Possono così crearsi forti iniquità orizzontali tra famiglie con la stessa composizione: ad esempio
una famiglia tipo composta da due coniugi e un minore potrebbe addirittura perdere il sussidio
quando quest’ultimo compie tre anni o comunque vederlo fortemente ridotto per la sensibile
riduzione della “scala di equivalenza” (da 1,55 a 1,15); lo stesso potrebbe accadere ad una famiglia
con due coniugi e tre minori una volta che uno di questi ultimi diventasse maggiorenne (il
coefficiente si ridurrebbe da 1,8 a 1,25).
In sostanza i maggiorenni con età compresa tra 18 e 59 anni senza carichi di cura sono come dei
“fantasmi” all’interno del nucleo per quanto riguarda la corretta valutazione della consistenza
reddituale del medesimo, determinante sia per l’accesso alla prestazione che per la
quantificazione del beneficio. Questo elemento contraddice il principio economico stesso alla base
di una scala di equivalenza che, per mettere a confronto il reddito familiare di nuclei di diversa
dimensione, vuole che la medesima si incrementi per ogni elemento presente nel nucleo.
Paradossalmente invece questi maggiorenni diventano determinanti rispetto alle condizionalità cui
sono soggetti, nei confronti delle quali eventuali mancanze possono condurre a revoca
temporanea o definitiva della prestazione per l’intero nucleo familiare. Una contraddizione che
appare stridente.
9
3 b. Proposta
La “scala di equivalenza” del RdC sulla quale avevamo evidenziato nel corso del tempo notevoli
criticità, non ha trovato una positiva evoluzione in quella dell’AdI, che proprio per questo
riteniamo debba essere sensibilmente modificata. Pur non condividendo il concetto di carico di
cura così come introdotto, che ad esempio a nostro parere non può limitare per la medesima l’età
del minore al di sotto dei tre anni, riteniamo che per ragioni di costo e di logica intrinseca alla
riforma possa essere mantenuta una differenziazione del peso dei componenti che ne tenga conto.
Occorre tuttavia che ogni componente della famiglia che riceve la prestazione venga valutato
all’interno del nucleo; allo scopo proponiamo che ogni maggiorenne senza carichi di cura ora
escluso dalla scala di equivalenza abbia invece un peso pari allo 0,25 e che contestualmente il
tetto massimo della medesima possa eventualmente essere innalzato. I risultati di questa proposta
in termini di beneficio per i percettori di AdI ed in termini di costi sono illustrati dalla tabella
sottostante.
Famiglie beneficiarie Importo medio annuo Spesa annuale
Proposta di riforma (in migliaia) (in euro) (in miliardi di euro)
RdC AdI RdC AdI RdC AdI
Peso 0,25 agli esclusi dalla scala
(senza tetto)
Come evidenziato una scala di equivalenza siffatta determinerebbe, pur mantenendo i vincoli
categoriali di accesso, un aumento della platea dei percettori di 64mila famiglie. Si tratterebbe di
quelle famiglie con redditi equivalenti bassi nelle quali, insieme ai soggetti che si vogliono tutelare
(minori, anziani e disabili) vi sono anche maggiorenni senza carichi di cura oggi non considerati.
Anche l’importo medio annuo della prestazione risulterebbe aumentato di oltre 300 euro; mentre
il costo annuo dell’intera operazione ammonterebbe a circa 620 milioni. Se venisse
contestualmente tolto anche il tetto alla scala di equivalenza si avrebbe un incremento assai
contenuto della platea delle famiglie coinvolte e dei relativi costi, a dimostrazione che in realtà la
scala di equivalenza dell’AdI cresce assai più lentamente di quella del RdC all’aumentare dei
componenti del nucleo familiare, conseguentemente il tetto imposto risulta poco vincolante.
10
4. Indicizzazione
4 a. Contesto e problemi
Uno dei principali difetti del RdC consiste nella sua mancata indicizzazione al costo della vita. Tale
mancanza ha determinato un’erosione del sostegno reddituale per i percettori tutto sommato
contenuta nel biennio successivo all’introduzione della misura (2020-21), data la dinamica poco
vivace dei prezzi legata anche alla crisi pandemica (-0,2% nel primo anno e +1.9% nel secondo). La
forte impennata subita dall’inflazione nel 2022 (+8.1%), dovuta alla crisi energetica, ha tuttavia
evidenziato quanto potesse essere fragile in termini reali il vigente sistema di sostegno minimo al
reddito. Complessivamente l’assenza di indicizzazione ha dunque determinato una contrazione del
valore reale del RdC nel triennio di poco inferiore al 10%. In sostanza il beneficio massimo per un
single con casa di proprietà si è ridotto in termini reali di circa 50 euro al mese, che diventano poco
meno di 80€ nel caso di abitazione in affitto. E’ una contrazione comunque consistente, trattandosi
di uno strumento di sostegno minimo al reddito.
Uno degli elementi qualificanti delle prime bozze emerse della riforma di tale strumento era
proprio la sua indicizzazione (sia delle soglie reddituali che di quelle ISEE), sebbene per ragioni di
costo essa fosse prevista solo a partire dal 2026, anno per il quale si prevede che l’inflazione si
riassesti su un valore più moderato del 2%. La legge 85/2023 di conversione del decreto, come
d’altra parte già il testo definitivo di quest’ultimo, non prevede tuttavia alcuna forma
d’indicizzazione.
4 b. Proposta
Per evitare che il valore dell’Assegno d’inclusione venga in futuro progressivamente eroso dalla
crescita dei prezzi, l’Alleanza propone che almeno le due componenti dell’importo del beneficio,
la soglia reddituale di riferimento ed il sostegno per l’affitto, vengano annualmente indicizzate
sulla base dell’inflazione registrata a fine anno a partire dal gennaio 2025. Prendendo come
riferimento le previsioni d’inflazione indicate nel DEF per il periodo 2024-26 (2,7% per il 2025 e 2%
per gli anni successivi), tale indicizzazione determinerebbe secondo le nostre stime un costo
aggiuntivo per lo Stato pari a circa 190 milioni nel 2025 ai quali si aggiungerebbero circa 140
milioni per ciascuno degli anni successivi (dunque 330milioni nel 2026, 470 nel 2027 e così via) 2.
–
11
5. Offerta congrua
5 a. Contesto e problemi
I dati ANPAL dimostrano come i beneficiari dell’RdC indirizzati ai Centri per l’impiego, al 30 Aprile
2023, sono stati 777mila, di cui 109mila (il 14%) sono stati esonerati dal sottoscrivere il Patto per il
Lavoro in virtù delle varie situazioni di esclusione, esonero o rinvio e circa 100mila (il 13%)
risultavano occupate. Pertanto, poco meno di 3 persone su 4 (568mila) erano tenute a
sottoscrivere il Patto, ma di queste il 78% era rappresentato da persone senza alcuna esperienza
lavorativa nel triennio precedente. L’Anpal, per mezzo di un modello di profilazione quantitativa,
ha anche stimato la probabilità di trovare un’occupazione in base alle caratteristiche dei lavoratori.
Solo 1 su 30 aveva probabilità di trovare un lavoro entro un anno, mentre il 66% era a rischio di
cadere nella disoccupazione di lunga durata.
Si riscontra quindi un’enorme condizione di fragilità lavorativa tra gli “occupabili”, molti dei quali
in possesso al massimo del diploma di scuola media, oltre ad essere fuori dal mercato del lavoro
regolare da molti anni.
I soggetti più vulnerabili sono i giovani under 30, le donne, gli stranieri, i residenti al Sud, le
persone con titolo di studio più basso, le professioni meno qualificate, nella ristorazione, nei
servizi alle famiglie e nei servizi di supporto alle imprese.
È necessario intervenire strutturalmente per limitare il più possibile le vulnerabilità, evitando che
queste si cristallizzino in disagio e, parallelamente, rigenerare il capitale umano dei lavoratori
vulnerabili che continuano, inoltre, a pagare il riflesso dell’alto tasso di inflazione.
In Italia manca una domanda di lavoro adeguata alle caratteristiche di potenziali lavoratori molto
fragili e con basse qualifiche, che sia capace di offrire, al contempo, condizioni dignitose.
L’offerta di lavoro “congrua” è disciplinata in termini generali: a) dall’articolo 25 del d.lgs 150/2015
(Jobs Act); b) dal DM 10 aprile 2018, n. 42. In particolare per il Reddito di cittadinanza, l’offerta
“congrua” era regolata dall’articolo 4, comma 9, del d.l. 4/2019, convertito in legge 26/2019.
La congruità non ha mai avuto a che fare, quindi, con valutazioni soggettive, espresse dal
disoccupato percettore di sostegno al reddito, che può rifiutare un’offerta di lavoro in quanto
considerata non soddisfacente rispetto alla propria aspirazione professionale, ma determinata da
elementi oggettivi, definiti dalle norme.
La Legge n. 234 del 30 dicembre 2021 – Legge di Bilancio 2022 – aveva ridotto a due (anziché tre) le
offerte di lavoro congrue: la prima, a tempo pieno e indeterminato o a tempo parziale e
determinato, doveva essere a 80 km da casa (100 minuti di trasporto pubblico), la seconda,
esclusivamente a tempo pieno e indeterminato, poteva riguardare l’intero territorio nazionale. Il
rifiuto della prima offerta determinava la decurtazione del reddito di cittadinanza di 5 euro ogni
mese, mentre il rifiuto della seconda, sanciva la perdita del diritto al beneficio.
Successivamente, la Legge di Bilancio 2023 è intervenuta ulteriormente eliminando la parola
“congrua” in relazione all’offerta di lavoro rivolta al beneficiario di RdC, stabilendo la decadenza
dal beneficio al rifiuto della prima offerta. Ha introdotto, inoltre, il divieto di percepire il Reddito di
Cittadinanza per i giovani che non hanno assolto l’obbligo scolastico.
12
Attualmente, il componente del nucleo familiare beneficiario dell’Assegno di inclusione attivabile
al lavoro, preso in carico dai servizi per il lavoro competenti, è tenuto ad accettare una sola offerta
di lavoro con determinate caratteristiche, più avanti descritte.
L’RdC ha manifestato criticità importanti per quanto riguarda il meccanismo dell’attivazione
lavorativa. La crisi pandemica ha sicuramente ostacolato la piena riuscita del progetto, insieme ad
un lento e faticoso avvio delle procedure organizzative, a una macchina amministrativa complessa,
e a un funzionamento dei CpI che ha dovuto fare i conti con il sotto-finanziamento degli stessi e
con una gestione inefficiente delle professionalità impiegate (questione “Navigator”).
Non sono disponibili dati sulle offerte di lavoro per i percettori di RdC né su quelle rifiutate. Gli
unici fruibili sono quelli relativi alla presa in carico da parte dei centri per l’impiego, che riguardano
solo una parte della platea che ha sottoscritto il patto per il lavoro. Tutti gli altri sono inviati ai
servizi sociali. Tuttavia, la presa in carico non indica chi ha un lavoro, o lo ha rifiutato, ma attesta
che è avvenuto un incontro con gli addetti dei centri per l’impiego. La pandemia ha comportato la
sospensione della parte attiva della misura del RdC, ma è noto che il mal funzionamento dei centri
per l’impiego non riguarda solo i lavoratori fragili.
Tuttavia, l’Assegno di Inclusione non sembra correggere le criticità del Reddito di Cittadinanza
relative alla parte attiva della misura. L’AdI, infatti, definisce il concetto di occupabilità basandolo
esclusivamente su un criterio di età anagrafica. Vengono esclusi soggetti solo anagraficamente
abili al lavoro, ma nei fatti caratterizzati spesso da diverse tipologie di fragilità.
Particolarmente restrittiva è la modifica dell’offerta congrua. Come detto, l’RdC in origine
prevedeva 3 proposte di lavoro, progressivamente più distanti dal luogo di residenza; si è poi
arrivati a una sola offerta di lavoro su tutto il territorio nazionale, in seguito alla Legge di Bilancio
2023.
Tale requisito viene confermato nell’Assegno di Inclusione, a patto che l’offerta preveda un
contratto a tempo indeterminato. Qualora, invece, il contratto sia a tempo determinato o di
somministrazione, oppure nel nucleo beneficiario sia presente un minore di 14 anni, il luogo di
lavoro deve essere entro 80 km e raggiungibile al massimo entro 120 minuti con i mezzi pubblici.
5 b. Proposta
Vincolare la condizione di “occupabilità” all’analisi multidisciplinare dei bisogni e delle
competenze, da effettuare ex-ante. Un migliore targeting permetterebbe un più efficace
indirizzamento verso offerte di lavoro non solo congrue, ma anche compatibili.
Occorre ridefinire l’offerta congrua per non limitare in modo considerevole l’accesso dei fragili
percettori dell’Adi nel mercato del lavoro, tenendo conto dalle necessarie garanzie di
sopravvivenza. Non si può ignorare inoltre un elemento importante come l’azione di reskilling
(ossia un’attività di formazione mirata e robusta) per avvicinare la persona in cerca di occupazione
ai profili richiesti dal mercato. Una formazione professionalizzante quindi indirizzata ad un
innalzamento del livello di qualificazione/EQF rispetto al livello di istruzione posseduto.
Rispetto all’offerta congrua, proponiamo che sia definita analogamente a quella prevista per
percettori di Naspi.
13
6. Cumulabilità reddito-lavoro
6 a. Contesto e problemi
La cumulabilità reddito-lavoro nell’RdC è una criticità che è stata riscontrata dall’analisi di Alleanza
contro la Povertà, nonché della “Commissione Saraceno” del Ministero del Lavoro. Trovando un
lavoro durante l’erogazione del beneficio, nel cumulare il nuovo reddito con il sussidio per ogni
euro guadagnato se ne perde l’80%, fino ad una perdita del 100% al momento della modifica
dell’ISEE.
Si verifica, pertanto, il paradosso che rende competitivo il sussidio con il lavoro a basso reddito:
questo può scoraggiare l’accettazione di un’occupazione o anche spingere verso il lavoro nero (pur
sottolineando che tale piaga non ha certo origine con il RdC), generando il meccanismo della
trappola della povertà e del lavoro sottopagato e senza tutele.
A questa problematica si associa un fenomeno comune in tutta Europa, ma particolarmente
incisivo in Italia: il lavoro povero. Oggi, il rischio di povertà non riguarda solo le famiglie che si
trovano sotto una determinata soglia. Il fenomeno dei “working poor”, lavoratori che, anche se
occupati, non godono di un reddito sufficiente per sé e la propria famiglia, è dilagante ed espone
le persone al rischio di permanere nella condizione di povertà. L’Eurostat riporta che nel 2022 in
Italia l’11.5% dei lavoratori maggiori di 18 anni era working poor (3.2 milioni di lavoratori),
percentuale che sale al 14% se si considera la platea dei single.
L’AdI prevede una franchigia di 3000 euro lordi annui entro i quali le retribuzioni guadagnate
(principalmente da lavori di breve durata o saltuari) non partecipano al calcolo del reddito.
La franchigia è un passo in avanti rispetto al RdC, verso l’integrazione tra il beneficio del reddito
minimo e il reddito da lavoro, seppur rudimentale. Siamo, infatti, ancora distanti dalla definizione
di un vero “in-work benefit”, cioè di sussidio che integra la retribuzione di mercato per portarla a
livelli più accettabili, particolarmente necessario in un’epoca post pandemica e inflazionistica in cui
le distanze tra poveri assoluti e persone di poco al di sopra della soglia di povertà si sono
assottigliate enormemente. Inoltre, la franchigia è valida solo per le nuove attivazioni, escludendo
chi un lavoro già ce l’ha pur rientrando nell’AdI. Superati i 3000€ lordi annui, l’aliquota marginale
si attesta direttamente al 100%.
La soluzione ottimale, per Alleanza Contro la Povertà (anche guardando alle migliori esperienze
europee per ridurre la povertà in maniera strutturale) è una misura capace di favorire, laddove
possibile, l’attivazione e l’inclusione nel mercato del lavoro delle persone inattive e/o disoccupate
del nucleo familiare e, allo stesso tempo, garantire ai lavoratori poveri migliori opportunità di
lavoro.
Sia il nostro Position Paper di ottobre 2021, sia il Rapporto del Comitato Scientifico per la
valutazione del Reddito di Cittadinanza, hanno indicato l’importanza, per gli schemi di reddito
minimo garantito, dei meccanismi di cumulo che facilitano la combinazione tra lavoro e reddito,
accrescono l’attrattività del lavoro e costituiscono un disincentivo nei confronti dell’inattività o
della combinazione tra sussidio e lavoro nero.
Questi meccanismi generano una combinazione virtuosa, che ha la finalità di sostenere e
accompagnare l’inclusione lavorativa riducendosi gradualmente, fino all’ottenimento di
un’occupazione stabile, di qualità, che garantisca un reddito adeguato.
14
6 b. Proposta
Oltre a rispondere al principale obiettivo di contrasto alla povertà, la misura dovrebbe risultare per
i componenti del nucleo beneficiario che possono essere attivati nel mondo del lavoro come un
vero e proprio in-work benefit. A tale scopo proponiamo la riduzione al 60% dell’aliquota
marginale effettiva sul reddito da lavoro, per permettere un’integrazione graduale del reddito
minimo con quest’ultimo, fino ad una soglia reddituale stabilita e aggiornata periodicamente,
come nel modello francese.
15
7. Ruolo dei Comuni (inclusione sociale)
7 a. Contesto e problemi
La spesa sociale in Italia, nonostante abbia fatto registrare un lieve incremento tra 2009 e 2019,
oltre ad essere ancora troppo bassa in rapporto ai crescenti bisogni della popolazione (a partire da
aumento della povertà e invecchiamento) è anche molto differenziata da Regione a Regione e
all’interno delle stesse tra le diverse province, come analizzato in un recente Rapporto CNEL sui
servizi sociali territoriali: su una media nazionale di 126 euro pro-capite si passa, infatti, dai 583
euro di Bolzano ai 6 di Vibo Valentia, passando – nella stessa regione – per i 125 di Macerata e gli
86 di Ascoli Piceno, con forti differenziazioni anche per la spesa pro-capite per il servizio sociale
professionale.
L’analisi nel dettaglio della spesa complessiva – come si vede nella figura riportata – evidenzia
come la distribuzione territoriale della spesa per interventi e servizi 3 sia differente da regione a
regione, a dimostrazione di come i noti divari territoriali andranno a condizionare la possibilità che
i Comuni e gli Ats avranno di assolvere ai compiti che la legge 85/2023 gli attribuisce in ragione del
territorio in cui operano.
Fonte: Rapporto CNEL su I Servizi Sociali Territoriali, gennaio 2023
La presa in carico dei percettori dell’Assegno di Inclusione, nella schematica procedura individuata
dalla norma, appare positiva in particolare nell’aver ripristinato l’analisi preliminare dei bisogni del
nucleo da parte del servizio sociale del comune o dell’Ats, che nel passaggio da REI a Rdc era
Per interventi e servizi di intende l’erogazione di servizi come l’attivita? di servizio sociale
professionale svolta dagli assistenti sociali, i servizi di integrazione sociale per soggetti deboli o a rischio, le attivita?
ricreative, di mediazione culturale, di inserimento al lavoro, di assistenza domiciliare, ecc. Tali servizi sono raggruppati
in sei sottocategorie che accorpano 31 attivita? elementari complessive.
16
venuta meno. La previsione di una valutazione multidimensionale preliminare è fondamentale per
valutare la complessità della condizione in cui si trova ciascuna famiglia e ciascun componente e
per poter così attuare tutti gli interventi e i servizi necessari a favorirne l’inclusione sociale e
l’uscita dalla povertà, attivando – dove necessario – anche un’équipe multidisciplinare, con il
coinvolgimento di tutti gli operatori della rete dei servizi territoriali.
Perché questa procedura funzioni e, soprattutto, sia efficace nel dare risposte alla popolazione in
condizione di bisogno – in attesa di verificare le modalità con cui dovrà espletarsi che saranno
definite da appositi decreti ministeriali – è però necessario che la rete dei servizi pubblici
territoriali, che è giustamente chiamata a svolgere questo ruolo fondamentale nella presa in carico
della popolazione, sia rafforzata e potenziata, investendo prioritariamente dove maggiori sono le
difficoltà. Il rischio, altrimenti, è che le istituzioni pubbliche vengano meno al loro compito
costituzionale di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona e si consolidi un processo di
esternalizzazione e privatizzazione anche nella stessa presa in carico della popolazione in difficoltà.
7 b. Proposta
I comuni, attraverso gli ambiti sociali, devono poter svolgere un vero e proprio ruolo di regia e a tal
fine vanno rafforzati in termini di personale e risorse. Gli operatori dei servizi sociali, così come
quelli dei Centri per l’Impiego, dei servizi abitativi, della salute, dei servizi educativi e della
formazione, devono essere messi in grado di integrare le loro professionalità e conoscenze per
poter assumere la centralità che la norma gli attribuisce nel valutare la multidimensionalità dei
bisogni che la condizione di povertà genera e da cui è generata e nel poter attivare tutti gli
interventi e i servizi necessari a superarla. Per questo è necessario prevedere sia un maggiore
coordinamento tra servizi e tra amministrazioni, in particolare tra servizi sociali e Centri per
l’Impiego, attraverso dei protocolli operativi sia un investimento straordinario di risorse
finanziarie, strumentali e, soprattutto, umane, anche in deroga ai vincoli assunzionali, che colmi i
divari esistenti da regione a regione, da Ambito Territoriale Sociale ad Ambito Territoriale Sociale,
da Comune a Comune.
17
8. Progetti utili alla collettività (PUC)
8 a. Contesto e problemi
Il DL 48/2023 – similmente a quanto già era previsto con il RdC – prevede che, nell’ambito del
percorso personalizzato, possa essere previsto l’impegno nella partecipazione a progetti utili
alla collettività (PUC), a titolarità dei Comuni o di altre Amministrazioni Pubbliche (a tale fine
convenzionate con i Comuni). Tali progetti potranno essere realizzati in ambito culturale, sociale,
artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, e svolti presso il comune di
residenza, compatibilmente con le altre attività del beneficiario. Lo svolgimento di tali attività è
a titolo gratuito.
La norma prevede inoltre che equivalga alla partecipazione ai PUC l’adesione, definita d’intesa con
il Comune, ad attività di volontariato presso enti del Terzo settore, da svolgere nel comune di
residenza nei medesimi ambiti di intervento di cui sopra.
Mentre con il RdC veniva previsto in legge che la partecipazione ai PUC fosse obbligatoria e con
una durata non inferiore al numero di 8 ore settimanali, aumentabili fino ad un numero massimo
di 16 ore complessive settimanali (D. Lgs. 1/2019 Art 4 comma 15), ora le modalità e i termini di
attuazione dei PUC saranno definiti con apposito decreto del Ministro del lavoro e delle Politiche
Sociali, previa intesa in sede di Conferenza unificata. Si tratta di un rimando che lascia ampi spazi e
che andrà attentamente vigilato per evitare rischi di usi impropri dello strumento. Ricordiamo in
ogni caso che la norma ora prevede che “nell’ambito del percorso personalizzato può essere
previsto l’impegno alla partecipazione a progetti utili alla collettività“: si è quindi di fronte ad
una possibilità e non di un obbligo. (art 6 comma 5 bis).
L’inclusione sociale è un processo delicato, che rappresenta un pilastro fondamentale per la
creazione di una società equa, diversa e solidale ed implica l’accettazione e il riconoscimento di
ogni individuo come membro a pieno titolo della società, indipendentemente dalla loro etnia,
religione, genere, disabilità, orientamento sessuale o status socio-economico. Significa pertanto
superare le barriere che impediscono alle persone di partecipare attivamente alla vita sociale,
economica e politica (art 3 Cost).
Per promuovere l’inclusione sociale, è necessario adottare approcci multidimensionali che siano in
grado di integrare più aspetti, così come riassumibili dalla seguente figura, tratta dal “Rapporto
2023 – Patto per l’inclusione sociale del Reddito di Cittadinanza: una valutazione di processo della
presa in carico” (World Bank Group e Min. Lavoro, maggio 2023, pag. 71)
18
Si tratta di una mappa assai articolata e complessa, di cui i PUC sono solo una parte, relativa al
potenziamento delle reti sociali e di prossimità: una azione che, per avere esito positivo, occorre si
basi su un coinvolgimento libero delle persone, sostenendole e “capacitandole” affinché possano
orientarsi nelle loro scelte e percorsi verso l’autonomia. Eventuali forzature rischiano di vedere
vanificato l’esito dei PUC, anzi possono prestare il fianco anche ad azioni di ostacolo se non di vero
e proprio sabotaggio delle attività previste dal PUC e del percorso d’inclusione. A fronte di
beneficiari della misura con scarse abilità sociali, va profuso uno sforzo per allargare l’offerta e
l’orientamento, considerando anche la scelta verso la partecipazione ad un PUC come parte del
percorso di “capacitazione” e acquisizione di competenze ed abilità sociali.
8 b. Proposta
Come già a suo tempo sostenuto, l’Alleanza ritiene che la partecipazione dei beneficiari
dell’Assegno di Inclusione ai PUC debba essere volontaria, secondo una logica basata sulla
conquista della consapevolezza di sé e capacitazione dei soggetti più fragili. Come evidenziato i
PUC sono parte dei percorsi di inclusione sociale e lavorativa. Essi possono vedere esiti positivi
solo laddove siano costruiti a monte protocolli specifici, su progettualità condivise con le parti
sociali, il terzo settore e l’associazionismo più ampio e diffuso, utili alla costruzione di un processo
di fiducia che punti su una convinta e, responsabile e partecipativa adesione agli stessi da parte dei
beneficiari, che porti a valorizzarne e incrementarne le competenze e la proattività necessaria
all’inclusione sociale.
Occorre inoltre che i Comuni, anche con il supporto degli ETS, siano messi nelle condizioni di
ampliare quanto possibile la offerta di PUC così che facilitare l’adesione a tali percorsi.
19