
[lid] Per un mare plastic free
Una collaborazione speciale tra i poliziotti sommozzatori del Centro nautico di La Spezia, Cnr e Ingv per la tutela dell’ecosistema mare
L’ambiente marino va innanzitutto rispettato e il mare non va mai sfidato, né sottovalutato. Lo sanno bene le donne e gli uomini del Cnes, il Centro nautico e sommozzatori della Polizia di Stato, che di tale regola ne hanno fatto il loro “mantra”. Poliziamoderna ha raggiunto la base degli “uomini-rana” a La Spezia, per documentare il loro lavoro sott’acqua, anche quando il fondale non è sempre limpido. Tra i compiti, oltre la ricerca e il recupero di corpi di reato, il soccorso, prevenzione e assistenza nelle attività subacquee, c’è anche la tutela dell’ecosistema marino, che è vita e va difeso.
La degradabilità delle plastiche standard e bio
Negli ultimi anni, infatti, sono cresciute le attività e le iniziative che cercano di affrontare la minaccia globale delle microplastiche, flagello di mari e oceani. Nel 2020 sono iniziati alcuni esperimenti sulla degradazione delle plastiche da parte del Cnr-Ismar, l’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche e l’Ingv, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, che hanno visto il prezioso supporto tecnico-operativo dei sub della Polizia di Stato. Gli studi sono concentrati sui rifiuti di plastica, galleggianti o spiaggiati, che soffocano i nostri mari o ne popolano i fondali. I progetti di mappatura subacquea dell’inquinamento, il monitoraggio e il recupero degli oggetti hanno interessato l’isola di Giannutri (GR), dove un biologo sommozzatore della società Ambienti Magri aveva segnalato al Cnr accumuli di materiale plastico, alla profondità di 15 metri, nella zona di Cala dello Spalmatoio, a pochi metri dalla costa. «Le bottiglie e i rifiuti – sostengono le ricercatrici Silvia Merlino del centro Cnr-Ismar e Marina Locritani dell’Ingv di Lerici (SP), incontrate al Cnes di La Spezia – possono provenire anche da zone molto lontane e, durante il galleggiamento nei mari, sono appesantite da incrostazioni che ne provocano lo sprofondamento. Una volta affondate, tendono a raccogliersi in zone dalle caratteristiche morfologiche particolari e, con le correnti delle diverse aree marine, rimangono intrappolate nelle aree a bassa circolazione e ad alto accumulo di sedimenti, come qui a Giannutri». Insieme al gruppo sommozzatori della Spezia, sono stati organizzati dei sopralluoghi per circoscrivere l’accumulo di oggetti e avere una prima stima della quantità. Oltre ai rilievi fotografici sottomarini, eseguiti con la Canon 760 D subacquea, con scafandro easy dive, degli specialisti del Cnes,sono stati prelevati anche alcuni campioni di bottiglie per valutare lo stato di degradazione della plastica. I due enti di ricerca, che si avvalgono della collaborazione dell’associazione Marevivo e della Flotta Castalia (composta da 9 unità d’altura e 23 costiere, per la lotta all’ inquinamento marino), che hanno inviato una delle “navi delle plastiche”, in estate sono tornati a Giannutri. Grazie alla bravura dei sub della polizia, è stata effettuata la bonifica completa di tutto il materiale sommerso con speciali reti. In mare, particolarmente preoccupanti sono le microplastiche, particelle tra 1 micron e 5 millimetri, il cui impatto sul delicato ecosistema marino è devastante. Questi materiali, purtroppo, entrando negli organismi, sono veicolo di inquinanti attraverso la catena trofica (alimentare, ndr.) «Per la cospicua diffusione di questi materiali – sostiene Silvia Merlino – è importante essere consapevoli dei rischi ambientali, e non solo, che comporta l’utilizzo anche delle bioplastiche, se disperse o non opportunamente smaltite: è necessaria un’informazione corretta. Con la pandemia, inoltre, quando abbiamo iniziato lo studio, nell’ambiente sono stati dispersi cumuli di mascherine e di guanti monouso, in polipropilene, un polimero difficile da smaltire». «Questo studio – aggiunge Marina Locritani dell’Ingv, coordinatrice insieme a Silvia Merlino dello studio – sottolinea l’importanza del corretto smaltimento di tutti i tipi di rifiuti, e soprattutto dopo lo stop alla plastica usa e getta, in attuazione della direttiva europea sui prodotti monouso in plastica biodegradabile, come quelli esaminati».
La stazione sottomarina
«Gli esperimenti innovativi sono stati possibili grazie alla piattaforma di monitoraggio ambientale “Stazione costiera”– proseguono le due ricercatrici – una struttura a forma di parallelepipedo di colore giallo, posto a 10 metri di profondità nella Baia di Santa Teresa, a La Spezia. All’interno ospita dei sensori per lo studio dei parametri fisici marini, come temperatura dell’acqua, studio delle correnti e salinità, è stata realizzata nell’ambito del progetto “LabMare”, del Distretto ligure per le tecnologie marine, in collaborazione con Cnr e Ingv e altri enti di ricerca. Il sito di acquisizione dati è collegato a terra attraverso un cavo sottomarino che va direttamente all’interno dello stabulatore (allevamento, ndr.) della Cooperativa dei miticoltori della Spezia, dove è installato un modem per la trasmissione in tempo reale dei dati. Al laboratorio sommerso, naturalmente con il contributo tecnico del Cnes, vengono agganciate particolari gabbie, progettate per lo studio della degradazione delle plastiche e l’assorbimento di sostanze inquinanti in ambiente marino». Mentre spiegano come funziona l’esperimento e lo studio che ne è scaturito successivamente, le due ricercatrici inseriscono alcuni rifiuti, per la dimostrazione, nelle speciali gabbie (2 grandi che contengono ciascuna 3 gabbie piccole di cui una, a sua volta, divisa in due per l’alloggiamento dei piccoli granuli di plastica vergine). Una di queste contiene solo rifiuti di plastica standard e l’altra gabbia, invece, solo rifiuti di plastica biodegradabile compostabile, i cosiddetti Pbat e Pla (sigle che indicano la tipologia di polimero): dal bicchiere alle posate, dalla capsula alla paletta per girare il caffè, dalle cannucce alle sigarette, pellicole di plastica e mascherine chirurgiche e FFp2. Le due studiose, poi, depositano all’interno delle gabbie più piccole anche i pellet o granuli, cioè i costituenti della plastica, di diverse tipologie polimeriche, principalmente polietilene o polipropilene. Chiusi in sacchi di plastica dalle fabbriche, i pellet sono dei pallini di circa 4 mm, che vengono dispersi durante il processo di trasferimento dalle fabbriche che li producono a quelle che li utilizzano per realizzare oggetti in plastica. Essi si trovano dappertutto, anche sulle spiagge. I sub del Cnes, dotati dell’attrezzatura necessaria per immergersi nella baia in tutta sicurezza, sono pronti a calare e posizionare le gabbie in mare e agganciarle alla stazione. «Senza la loro disponibilità e la loro professionalità, nonché le attrezzature all’avanguardia, lo studio sulla degradazione dei polimeri non sarebbe stato possibile, così come la manutenzione del laboratorio sommerso», dichiarano Merlino e Locritano. La stazione subacquea di ricerca è un vero osservatorio hi-tech, «dotato di telecamera digitale e sensori per il monitoraggio dei parametri ambientali, come la temperatura, la salinità e la velocità delle correnti, fondamentali per la degradazione. A terra – spiegano le studiose – c’è anche una vasca che contiene sabbia, per simulare la superficie di una spiaggia, dato che i raggi ultravioletti e le alte temperature contribuiscono all’innesco della fotodegradazione delle plastiche. Anche qui vengono inserite le varie tipologie polimeriche per poter fare un confronto tra la degradazione in ambiente marino aereo e quello subacqueo. I campioni sono prelevati ogni tre mesi circa, sia dalla sabbiera che dalle gabbie sommerse, e vengono analizzati in laboratorio dai ricercatori dell’Istituto dei processi chimico fisici del Cnr di Pisa». Nell’ambito del progetto, che si concluderà a fine anno, per proteggere l’ecosistema marino sono previsti ulteriori esperimenti a profondità maggiore da realizzare mediante l’installazione di una gabbia costituita da 18 tasche contenenti plastiche e bioplastiche in un’altra stazione del “LabMare”, a circa 600 metri sott’acqua, al largo di Riomaggiore, sempre in acque liguri.
I drifter, “vagabondi”smart
«Occorre coinvolgere i ragazzi delle scuole per affrontare il problema dell’inquinamento e per tutelare il mare ma anche i fiumi – continuano le due ricercatrici – Per questo è nato, grazie ai finanziamenti europei, il progetto Study the marine litter dispersion: Citizen science application case (Ml-Csa). Alla foce del fiume Arno, a San Rossore (PI), gli alunni dell’IIS Capellini-Sauro, di La Spezia, hanno realizzato un esperimento per studiare la dispersione in mare dei residui portati dalle correnti dei fiumi. Speciali drifter (che letteralmente significa “vagabondi”), una sorta di rifiuti tracciabili, di diversa forma e dimensione, come flaconi di detersivo in plastica e tavolette in legno di 40×40 cm, sono stati costruiti a scuola dagli alunni stessi, con l’affiancamento di un ricercatore dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr che collabora al progetto e di altri enti coinvolti nella rete europea delle Blue schools, cioè quegli istituti che, con varie iniziative ed eventi, sensibilizzano gli studenti a un futuro ecosostenibile. Fondamentale è stato il contributo logistico fornito dal Cnes della Polizia di Stato della Spezia che ha accompagnato, con i propri mezzi nautici, ricercatori e alunni nelle aree interdette dove è avvenuto il rilascio dei drifter».
Dopo aver osservato da vicino questi congegni realizzati a mano, Poliziamoderna esce in mare con Davide Santini, l’ispettore responsabile dell’Ufficio studi e addestramento e gli altri sommozzatori, a bordo dei performanti gommoni della polizia e raggiunge il largo. A bordo anche le due coordinatrici delle iniziative che, nella splendida cornice di Portovenere (SP), lanciano in acqua due campioni di drifter per illustrarne il funzionamento: «I dispositivi che hanno maggiore superficie esposta al vento viaggiano più velocemente in mare. Abbiamo fatto installare un sistema di tracciamento “smart”, costituito da elementi elettronici low-cost e pannelli solari per garantirne la completa autonomia. Inoltre, sono stati inseriti anche dei riferimenti con indirizzi mail, in modo che qualora qualcuno li ritrovasse spiaggiati, noi potremmo risalire al loro tragitto, anche se danneggiati. Sono dotati di un sistema Gps per il tracciamento e di una rete Gsm per la trasmissione dei dati. Queste applicazioni garantiscono una portata non superiore ai 10 km dalla costa e permettono la registrazione della tratta percorsa dal rifiuto e l’invio di tutti i dati a noi necessari da elaborare e analizzare tutte le volte che si avvicinano a riva».
Il Cnes, Centro di eccellenza
La sua base logistica è la caserma “A. Saletti” di La Spezia. È qui che nel giardino, di fronte al monumento ai Caduti, incontriamo il direttore del Centro nautico e sommozzatori della Polizia di Stato Paolo Amicarelli: «Sono qui da 3 anni ed essendo un vero appassionato del mare mi reputo molto fortunato a dirigere una realtà che esiste da ben 65 anni – sostiene – ed è unica in tutta l’Amministrazione. Il Centro è suddiviso in varie articolazioni: il nucleo dei sommozzatori, che a La Spezia può contare su 25 operatori. Poi ci sono i distaccamenti sul territorio di Venezia, di Bari, di Palermo, di Napoli e di Olbia, incardinati, però, negli Upgsp delle questure, che hanno con il Cnes un rapporto di “specificità”, in ragione delle peculiari attività della specialità. L’altra realtà del Cnes è quella della Scuola nautica, dove si fanno i corsi per i titoli professionali marittimi; inoltre ci sono i tecnici di mare, cioè il personale che ha conseguito i titoli nautici necessari alle varie attività; infine il Navalcentro, ossia gli operatori che gestiscono i mezzi navali. Alla Scuola si può diventare comandante dei mezzi navali costieri o d’altura, motorista, radarista. ec. ma si impara anche a condurre una moto d’acqua. In un’ottica di cooperazione internazionale, la Scuola nautica costituisce un importante centro di formazione e addestramento anche per le polizie estere e le guardie nazionali, come ultimamente quelle della Libia e della Tunisia. Ritornando alla componente subacquea, fondamentali per la Specialità – sottolinea il comandante – sono la formazione specifica, l’aggiornamento e il mantenimento della cultura subacquea. Non a caso i nostri sub sono formati dalla Marina Militare, presso la base del Varignano, “patria” degli incursori della Marina. L’aggiornamento consente agli operatori di mantenere un eccellente livello di addestramento ed essere pronti a rispondere alle esigenze dei differenti servizi e offrire la massima operatività. Un altro aspetto, forse poco noto, è quello della logistica: il Cnes è anche magazzino nazionale che valuta, acquista e distribuisce tutto il materiale nautico e di Specialità di cui necessitano le varie strutture dislocate sul territorio, garantendo ogni esigenza: è una “stazione appaltante”, fornisce tutte le attrezzature, interagendo continuamente col personale, soprattutto con i fruitori dei materiali che vanno spesso rinnovati per garantire a tutti di lavorare in sicurezza. Inoltre, poiché ogni mezzo natante sparso sul territorio necessita di carburante e pezzi di ricambio e, dato che il contatto con l’acqua salata provoca particolare usura, il Centro si occupa anche di manutenzione ordinaria e straordinaria». Oltre al quartier generale, il cuore pulsante dell’attività del Cnes è la base navale di Punta del Pezzino (SP). Se non ci sono emergenze, gli operatori si mantengono in allenamento tra immersioni, attività nautiche e condizionamento fisico, un training intenso fatto di attività natatoria unitamente alla preparazione atletica, articolata tra sessioni di corsa e palestra. La base navale, – conclude – ha anche lo scopo di testare il materiale innovativo che viene presentato dalle aziende subacquee per le dotazioni in uso per le attività del Centro. Tra le tante apparecchiature tecnologiche, il Rov (Remotely operated vehicle), è il robot che permette ai sub le ricerche di oggetti e persone fino a 300 m di profondità, restitutendo un’immagine in 3D del fondale e degli oggetti, grazie al sistema sonar Gemini della Pritec».
Esercitazioni e soccorso pubblico
Ai poliziotti con il respiratore è richiesto anche: saper affrontare le temperature polari e le acque ghiacciate. Per questo oltre a prendere il brevetto da sub hanno anche la specializzazione da alpinista e da manovratore di corda. Per calarsi nel crepaccio di un ghiacciaio e raggiungere il luogo dell’immersione, il sub deve saper usare le corde e fare i nodi anche in montagna. «Tra le attività in alta quota del Cnes – dichiara Roberto Domenichini, Capo nucleo dei sommozzatori e decano del Cnes – oltre alle esercitazioni al lago di Antermoia in Val di Fassa (TN), facciamo anche assistenza alle competizioni sportive invernali, a Lavarone in Trentino, dove i partecipanti sono subacquei e si tuffano sotto la superficie ghiacciata del lago: la temperatura è di pochissimi gradi e la visibilità è molto scarsa. Noi sub garantiamo lo svolgimento delle gare entro precisi parametri di sicurezza e siamo sempre pronti a intervenire di fronte a qualsiasi imprevisto, come un principio di ipotermia o un attacco di claustrofobia».
«La vera novità – dichiarano il dirigente e il Capo nucleo – che da qualche anno caratterizza il Cnes, è un protocollo di collaborazione dipartimentale, attivo dal 2021, per le esercitazioni congiunte, con i Vigili del Fuoco, con i quali i sommozzatori della polizia hanno in comune l’operatività in scenari di soccorso pubblico e di protezione civile». Gli “uomini-rana”, infatti, si addestrano anche in operazioni di ricerca persone in immersione e in manovre di salvataggio, a bordo di gommoni da rafting con un sistema di teleferiche. Le esercitazioni che si svolgono circa ogni tre mesi sul fiume Vara ( SP), «sono utili – prosegue il direttore – per gestire al meglio gli interventi più complessi. È una concreta possibilità di interfacciarsi con un’altra Amministrazione, mettendo a regime comune le competenze di ogni reparto, soprattutto in quegli scenari, oggi sono sempre più frequenti, caratterizzati da fenomeni atmosferici violenti e calamità naturali, come esondazioni di fiumi, alluvioni e salvataggi nei bacini interni».
«I nostri equipaggi erano pronti ad intervenire alla ricerca dei dispersi anche nell’inferno delle alluvioni che hanno flagellato la Liguria e la Toscana nel 2011», conclude Roberto Domenichini che qui abita da molti anni e ha vissuto in prima persona i momenti concitati e i primi soccorsi al disastro che ha travolto la sua terra.
Dopo 12 anni, un altro paesaggio, completamente irriconoscibile con strade, macchine, alberi e portoni inghiottiti da tonnellate di acqua e fango: è questo il mare nero e insidioso che hanno dovuto affrontare i sommozzatori del Cnes, subito dopo l’alluvione che a maggio ha colpito l’ Emilia-Romagna. Poliziamoderna ha raccolto le voci di chi è intervenuto in quei tragici istanti per soccorrere la gente che in quei luoghi è nata ma ha perso tutto. «Dal Cnes sono partiti subito 12 sub – afferma Amicarelli – che poi sono diventati 22 perché sono sopraggiunti alcuni uomini del Distaccamento di Bari e di Napoli. In poco più di 10 giorni di permanenza tra Faenza, Ravenna e Cesena, gli operatori hanno compiuto 150 interventi, la gran parte dei quali effettuati, nelle prime ore dell’emergenza, con estrema urgenza.«Eravamo divisi in 3 squadre – ricordano il sovrintendente Piercarlo Corsi, tra i più esperti del gruppo e l’agente Lucia Guerresi, la più giovane subacquea del Cnes – per assicurare efficienza e tempestività. Dapprima ci hanno indirizzato ad un argine, rotto in due punti, e in questa zona che abbiamo perlustrato non c’erano persone disperse, ma tutti si erano rifugiati ai piani superiori e sui tetti delle case perché era allagato». Oltre a soccorrere la popolazione e metterla in sicurezza, «In realtà dovevamo sostenerla anche psicologicamente. In 30 anni di attività al Cnes – dichiara il sovrintendente Corsi – ho vissuto molte esperienze, ma la reazione positiva del popolo emiliano mi ha sorpreso: in loro ho visto la forza di chi non si rassegna, la generosità dei volontari, l’impazienza di un territorio che voleva rialzarsi subito. Nei giorni successivi ci siamo diretti verso la riviera, perché la massa di acqua si era spostata dall’entroterra verso la costa. Ci muovevamo con jeep a 4 ruote motrici e gommoni. Grazie alle esercitazioni con i Vigili del Fuoco, ci siamo dotati di attrezzature specifiche per il soccorso, come i gommoni da rafting, che si muovono in spazi ristretti e controcorrente. Non hanno chiglia rigida e sono strutturati in modo tale da poter operare, senza incamerare acqua, in contesti come rapide dei fiumi e corsi d’acqua contraddistinti da forti correnti e dislivelli. Noi più esperti abbiamo messo in campo il bagaglio acquisito con l’addestramento congiunto e lo abbiamo trasmesso ai più giovani per non far correre alcun pericolo nè agli operatori nè alle persone in difficoltà. Tranne in una situazione dove abbiamo rischiato tutti ma non potevamo agire altrimenti: l’argine del fiume Sillaro stava crollando e l’acqua poteva completamente sommergere il paese vicino. Qui il fiume stava entrando nelle case perché quelle terre erano pianure alluvionali, in seguito bonificate, e l’acqua tendeva a tornare nei suoi spazi naturali. Abbiamo aiutato a portare i sacchi per rinforzare l’argine, insieme a tutte le forze armate in campo. Se avesse ceduto l’ultimo baluardo, il fiume avrebbe trascinato via migliaia di persone. Tra i molti interventi – prosegue Corsi – mentre eravamo in un b&b per recuperare dei rifugiati di guerra ucraini, abbiamo visto e tratto in salvo un anziano che era uscito da casa per comprare il pane, poi era rimasto chiuso nella sua auto e l’acqua lo stava inghiottendo. In una campagna lì vicino, una famiglia boliviana ci ha ringraziato pubblicamente sulle tv del suo Paese perché, completamente isolata, senza acqua né elettricità, neanche gli elicotteri erano riusciti ad individuarla. Era disperata e noi siamo riusciti a recuperarla». «Ci hanno chiamato da un agriturismo – conclude Guerresi – dopo aver evacuato le persone, siamo tornati indietro per salvare dei piccoli conigli arrampicati sugli alberi. Ci è capitato di recuperare anche gli animali domestici e i proprietari non si stancavano mai di ringraziarci». Sorride la sub Lucia, bionda e solare, mentre ricorda l’indimenticabile esperienza, felice di aver salvato ininterrottamente, insieme ai suoi colleghi, famiglie con bambini e anziani isolati e malati. Giorno e notte, senza mai sfilarsi la muta.