
(AGENPARL) – gio 22 settembre 2022 Gentile collega,
ti segnaliamo due notizie appena pubblicate su Media Inaf che vedono coinvolti ricercatori e ricercatrici dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.
Nella prima, grazie alle osservazioni del telescopio ALMA dell’ESO, un team di astronomi – fra i quali Nicola Marchili dell’Istituto nazionale di astrofisica e Ciriaco Goddi dell’Università di Cagliari – ha individuato i segni di un “hot spot” in orbita attorno al Sagittarius A*, il buco nero al centro della nostra galassia:
Bolle bollenti a un terzo della velocità della luce
Nella seconda, un team di ricerca guidato da una giovane dottoranda della Sapienza/Inaf, al suo primo articolo scientifico, è stato il primo a combinare elementi ultravolatili, volatili e refrattari nelle atmosfere dei pianeti giganti per sviluppare un metodo unificato utile per capire come e dove i pianeti extrasolari si sono formati:
Di seguito riportiamo i testi completi delle due notizie.
OSSERVANDO IL BUCO NERO CENTRALE IN LUCE POLARIZZATA
Bolle bollenti a un terzo della velocità della luce
Utilizzando il radiotelescopio cileno Alma, un team di astronomi – fra i quali Nicola Marchili dell’Istituto nazionale di astrofisica e Ciriaco Goddi dell’Università di Cagliari – ha individuato i segni di un “hot spot” in orbita attorno al Sagittarius A*, il buco nero al centro della nostra galassia. La scoperta aiuta a comprendere meglio l’ambiente enigmatico e dinamico del nostro buco nero supermassiccio
[Marco Malaspina](https://www.media.inaf.it/author/mala/) 22/09/2022
Sovraimpressa all’immagine del buco nero supermassiccio Sagittarius A* visto dalla collaborazione Event Horizon Telescope (Eht), una rappresentazione artistica indica la posizione dell’hot spot e la sua orbita attorno al buco nero così come previste dai modelli basati sui dati di Alma. Crediti: Eht Collaboration, Eso/M. Kornmesser (acknowledgment: M. Wielgus)
La recente [“fotografia” di Sagittarius A*](https://www.media.inaf.it/2022/05/12/foto-sgr-via-lattea-eht/) – il buco nero al centro della nostra galassia, il “nostro” buco nero, in breve [Sgr A*](https://it.wikipedia.org/wiki/Sagittarius_A*) – è stata “scattata” nell’aprile del 2017. Perdonate il profluvio di virgolette, ma in questo caso sono d’obbligo, trattandosi non di una normale fotografia bensì dell’immagine prodotta da [Eht](https://www.media.inaf.it/tag/eht/) – l’Event Horizon Telescope – al termine di un’analisi dati mostruosamente complessa. Dati ottenuti con il [metodo interferometrico](https://it.wikipedia.org/wiki/Interferometria#Interferometria_astronomica) avvalendosi di otto radiotelescopi sparsi per il globo. Fra quei telescopi c’erano anche le 66 antenne di [Alma](https://www.media.inaf.it/tag/alma/) – il grande array per osservazioni millimetriche e submillimetriche nelle Ande cilene. Rianalizzando a distanza di cinque anni i dati raccolti dalle antenne di Alma, un team di nove astrofisici guidato da Maciek Wielgus del Max Planck Institute for Radio Astronomy di Bonn, in Germania, si è imbattuto nelle tracce di “qualcosa” che si muove in senso orario a velocità pazzesca nei pressi del buco nero.
«Secondo noi, quella che vediamo è una bolla di gas bollente che sfreccia attorno a Sagittarius A* percorrendo un’orbita simile per dimensioni a quella di Mercurio attorno al Sole, ma compiendo una rivoluzione completa in circa 70 minuti. Ciò richiede una velocità strabiliante, pari a circa il 30 per cento della velocità della luce», dice Wielgus, primo autore dell’articolo che riporta il risultato, pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics.
Ciriaco Goddi, ricercatore all’Università di Cagliari, qui nella data room di Alma all’epoca della campagna osservativa di Sgr A* del 2017. Crediti: C. Goddi
Un’osservazione estremamente complessa da realizzare, questa delle bolle di gas bollente, resa possibile non solo dall’eccezionale sensibilità di Alma ma anche da una meritata dose di fortuna: appena poche ore prima che iniziasse a osservarlo Alma, il telescopio spaziale [Chandra](https://www.media.inaf.it/tag/chandra/) della Nasa aveva rilevato un bagliore di radiazione X – un flare, appunto – dal buco nero. «L’11 aprile del 2017», ricorda infatti a Media Inaf uno dei coautori dello studio, l’astrofisico Ciriaco Goddi dell’Università di Cagliari, che in quel periodo si trovava proprio in Cile a osservare con Alma, «c’è stato un flare nei raggi X, e la nostra curva di luce Alma ha rivelato un segnale compatibile con un hot spot. Quindi abbiamo potuto collegare i due fenomeni per la prima volta a un meccanismo noto come [riconnessione magnetica](https://it.wikipedia.org/wiki/Riconnessione_magnetica)».
L’ipotesi dei ricercatori è che gli hot spot – potremmo tradurli come “punti caldi” – rilevati da Alma, ai quali fa riferimento Goddi, siano una manifestazione dello stesso fenomeno fisico all’origine dei flare osservati da Chandra in banda X: emissioni che, quando si raffreddano, diventano visibili a lunghezze d’onda più lunghe, come appunto le microonde e le onde radio alle quali sono sensibili Alma e gli altri radiotelescopi che formano Eht. Averli ora osservati in entrambe le regioni dello spettro elettromagnetico conferma uno scenario da tempo contemplato dagli astrofisici: all’origine di questi flare ci sarebbero interazioni magnetiche in atto nel gas caldo in orbita stretta attorno al buco nero.
«Le nostre osservazioni offrono un indizio per ricostruire la geometria di questo processo», aggiunge un’altra delle coautrici dello studio, l’astrofisica Monika Mo?cibrodzka della Radboud University. «I nuovi dati sono estremamente utili per arrivare a un’interpretazione teorica di questi eventi».
In particolare, poiché Alma consente agli astronomi di studiare l’emissione radio [polarizzata](https://it.wikipedia.org/wiki/Polarizzazione_della_radiazione_elettromagnetica) di Sagittarius A*, che può essere utilizzata per svelare il campo magnetico del buco nero, il team ha utilizzato queste osservazioni anche per arrivare a stabilire vincoli più forti – rispetto alle osservazioni precedenti – sulla forma del campo magnetico che avvolge il nostro buco nero, aiutando così gli astronomi a scoprirne la natura e l’ambiente che lo circonda.
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Nicola Marchili, ricercatore all’Inaf – Istituto di radioastronomia di Bologna. Crediti: N. Marchili/Inaf-Ira
«La radiazione polarizzata», spiega a Media Inaf un altro coautore dello studio, Nicola Marchili dell’Istituto nazionale di astrofisica, «porta con sé informazioni che permettono di identificare e modellare regioni di emissione notevolmente più piccole dell’effettiva risoluzione del telescopio. Questo risultato ribadisce la straordinaria importanza delle osservazioni polarimetriche con Alma, [come già dimostrato, in precedenza, per M87](https://www.media.inaf.it/2021/03/24/m87-buco-nero-polarizzazione/), l’altro buco nero supermassiccio osservato con l’Event Horizon Telescope».
«La vera novità è che tali bagliori erano finora chiaramente presenti solo nelle osservazioni a raggi X e infrarossi di Sagittarius A*. Qui vediamo per la prima volta un’indicazione molto forte a sostegno del fatto che i punti caldi orbitanti sono presenti anche nelle osservazioni radio», conclude Wielgus. «Speriamo un giorno di poter affermare con fiducia che “sappiamo” cosa sta accadendo su Sagittarius A*».
Per saperne di più:
– Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “[Orbital motion near Sagittarius A? Constraints from polarimetric ALMA observations](https://www.aanda.org/articles/aa/full_html/2022/09/aa44493-22/aa44493-22.html)”, di M. Wielgus, M. Moscibrodzka, J. Vos, Z. Gelles, I. Marti?-Vidal, J. Farah, N. Marchili, C. Goddi e H. Messias
– Leggi la [press release dell’Eso](https://www.eso.org/public/news/eso2212/?lang)
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È POSSIBILE PORRE VINCOLI DA CARBONIO, OSSIGENO, AZOTO E ZOLFO
Con la chimica studiamo la storia degli esopianeti
Un team di ricerca guidato da una giovane dottoranda della Sapienza/Inaf, al suo primo articolo scientifico, è stato il primo a combinare elementi ultravolatili, volatili e refrattari nelle atmosfere dei pianeti giganti per sviluppare un metodo unificato utile per capire come e dove i pianeti extrasolari si sono formati. Il lavoro, pubblicato su ApJ, è di notevole interesse in vista della futura missione Ariel
[Eleonora Ferroni](https://www.media.inaf.it/author/ferroni/) 22/09/2022
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Schema di formazione di un pianeta gigante in un disco protoplanetario attorno a una stella. Il pianeta migra nel disco e accresce gas e solidi di diversa composizione chimica. Quest’ultima è influenzata dalla presenza delle snowline, regioni del disco in cui la temperatura è tale da causare la condensazione su grani di polvere di specifiche specie molecolari, rimuovendole dalla fase gassosa. Nello schema vengono indicate le snowline dell’acqua e del monossido di carbonio ma in un disco protoplanetario ne esistono molte di più. Il materiale accresciuto andrà a costituire l’atmosfera planetaria che telescopi come Ariel permetteranno di osservare e che sarà il punto di partenza per ricostruire la storia di formazione dei pianeti giganti. Crediti: Elenia Pacetti (Sapienza/Inaf)
Usare la chimica per studiare la storia: non è un concetto assurdo se la storia è quella degli [esopianeti](https://it.wikipedia.org/wiki/Pianeta_extrasolare) e se la chimica è quella delle loro atmosfere. E si parte da elementi che conosciamo e con i quali abbiamo a che fare tutti i giorni anche sulla Terra: carbonio, ossigeno, azoto e zolfo, e le loro combinazioni. Questo è l’argomento al centro di uno studio pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal a firma di Elenia Pacetti, giovane dottoranda presso la Sapienza per l’Inaf di Roma.
Il team di ricercatori guidato da Pacetti è stato il primo a combinare elementi ultravolatili, volatili e refrattari nelle atmosfere dei pianeti giganti per sviluppare un metodo unificato utile per capire come e dove questi pianeti si sono formati. «Siamo i primi a fornire linee guida universali per legare le abbondanze di elementi nelle atmosfere dei pianeti giganti alla loro storia di formazione, risolvendo le degenerazioni intrinseche nei metodi precedenti. In questo lavoro, inoltre, sveliamo per la prima volta quali rapporti di abbondanza sono influenzati dalla struttura chimica del disco protoplanetario e quali no, in modo da utilizzare le caratteristiche dei pianeti per ricavare anche informazioni sull’ambiente in cui avviene la formazione planetaria», spiega a Media Inaf la prima autrice.
Il luogo di nascita dei pianeti si chiama [disco protoplanetario](https://www.media.inaf.it/2020/10/09/la-prima-tomografia-di-un-disco-protoplanetario/), che altro non è che un disco fatto di gas e polvere stellare. Durante la loro formazione, i pianeti giganti interagiscono con ambienti chimicamente diversi nei dischi protoplanetari: i pianeti catturano gas e detriti solidi di composizione chimica eterogenea che formeranno l’atmosfera planetaria finale. «È ragionevole, quindi, pensare che la composizione chimica delle atmosfere che osserviamo oggi conservi memoria del processo che le ha portate a formarsi e delle caratteristiche dell’ambiente in cui questo è avvenuto. In questo lavoro esploriamo l’effetto sull’atmosfera planetaria finale di diverse strutture chimiche di disco e di diverse storie di formazione e migrazione del pianeta, concentrandoci su come queste influenzano l’abbondanza di elementi come carbonio (C), ossigeno (O), azoto (N) e zolfo (S)», sottolinea la dottoranda. «Troviamo che i rapporti di abbondanza C/O, C/N, N/O e S/N sono traccianti per la formazione planetaria e che, in generale, il processo di formazione planetaria produce pianeti giganti con rapporti di abbondanza che deviano significativamente da quelli della stella centrale e dell’ambiente in cui quest’ultima e il pianeta si sono formati. Nello specifico, misurare e confrontare diversi rapporti di abbondanza si rivela essere la chiave per porre dei vincoli su parametri come la distanza iniziale a cui si è formato il pianeta, l’estensione della migrazione dalla posizione iniziale all’orbita finale, la composizione del disco protoplanetario e la natura del materiale catturato dal pianeta, sia questo gas o una miscela di gas e solidi», prosegue la ricercatrice.
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Elenia Pacetti, dottoranda presso la Sapienza e membro del gruppo Inaf di Roma
La formazione dei pianeti giganti gioca un ruolo fondamentale nel definire l’architettura del sistema planetario di cui fanno parte, influenzando anche la formazione dei pianeti terrestri e la loro abitabilità. Essere in grado di ricostruirla a partire da osservazioni di uno dei suoi prodotti finali, l’atmosfera planetaria, permette ai ricercatori di fare luce sull’origine dei sistemi esoplanetari che osserviamo oggi ma anche del Sistema solare, fornendo delle prime indicazioni su quanto sia probabile trovarne di simili, con pianeti abitabili simili alla Terra. Lo studio della chimica planetaria è ormai il fulcro attorno a cui ruotano molte delle missioni spaziali attualmente in corso o future. Tutti noi vogliamo sapere cosa c’è al di là del Sistema solare, principalmente la domanda è: c’è vita? E andare a caccia di vita vuol dire studiare proprio gli elementi chimici che popolano le atmosfere degli esopianeti lontani.
Significativi passi in avanti nel campo sono attesi dall’analisi dei dati, ormai in dirittura di arrivo, del [telescopio spaziale James Webb](https://www.media.inaf.it/2022/09/16/james-webb-sei-troppo-avanti/). E aspettative ancora più alte sono riposte nella missione spaziale protagonista del prossimo decennio, [Ariel](https://www.media.inaf.it/2021/12/09/contratto-ariel-esa-airbus/) (Atmospheric Remote-Sensing Infrared Exoplanet Large-survey), il cui lancio è fissato nel 2029. Ariel sarà il primo telescopio spaziale interamente dedicato alla caratterizzazione spettroscopica delle atmosfere esoplanetarie ed è proprio nell’ambito di questa missione che si è sviluppato il lavoro pubblicato su ApJ. «Nel nostro gruppo ci siamo chiesti se sia possibile, e in che misura, utilizzare le osservazioni chimiche delle atmosfere dei pianeti giganti per risalire alla loro storia di formazione. Dalle caratteristiche chimiche dell’atmosfera planetaria, è possibile capire a che distanza dalla stella il pianeta si è formato e quanto ha migrato nel disco protoplanetario prima di raggiungere la sua orbita finale? Possiamo dire qualcosa sulle caratteristiche chimiche del disco all’interno del quale il pianeta si è formato? Quali sono i traccianti chimici che contengono queste informazioni? Come possiamo utilizzarli in modo da estrarre quante più informazioni possibile? Rispondere a domande di questo tipo è di fondamentale importanza per poter definire un metodo per studiare la formazione planetaria a partire dalla composizione delle atmosfere planetarie che osserviamo oggi e, quindi, sfruttare appieno il potenziale dei dati di Jwst e Ariel», dice Pacetti.
L’Italia, con il sostegno dell’Agenzia spaziale italiana (Asi), esprime due co-principal investigators nella missione Ariel, Giusi Micela dell’Inaf di Palermo e Pino Malaguti dell’Inaf di Bologna, supportati da un team che include numerosi altri scienziati e strutture dell’Istituto nazionale di astrofisica a cui si aggiungono l’Università di Firenze, l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Cnr di Padova e l’Università Sapienza di Roma. Micela spiega: «Ariel sarà una missione completamente dedicata all’osservazione di un migliaio di atmosfere esoplanetarie, con la possibilità quindi di esplorare condizioni fisiche molto diverse fra di loro. Il team italiano è molto impegnato nella preparazione della missione con l’identificazione delle tematiche scientifiche più promettenti e delle relative diagnostiche accessibili alla strumentazione. In questo contesto si sta studiando come risalire al luogo di nascita dei pianeti dalle osservazioni di Ariel, dato che la composizione atmosferica mantiene traccia delle condizioni in cui il pianeta si è formato ed evoluto. Il lavoro di Elenia Pacetti e dei suoi collaboratori pone una base teorica molto accurata dei meccanismi di cattura degli elementi chimici presenti nell’ambiente di formazione planetaria, e permetterà di interpretare al meglio e quindi di sfruttare al massimo le osservazioni delle atmosfere planetarie. Sarà quindi uno strumento preziosissimo per l’analisi e interpretazione dei futuri dati di Ariel».
«I nostri risultati insegnano che è possibile porre dei vincoli sulla storia di formazione e migrazione dei pianeti giganti osservando nelle loro atmosfere elementi di diversa volatilità come appunto C, O, N e S e confrontando i rapporti tra le loro abbondanze. Per alcune categorie di pianeti troviamo che la composizione dell’atmosfera conserva anche memoria delle condizioni chimiche iniziali dell’ambiente di formazione, permettendoci di distinguere le diverse configurazioni chimiche dei dischi protoplanetari. Dal momento che uno degli obiettivi osservativi del prossimo futuro è quello di misurare le abbondanze degli elementi discussi nello studio nelle atmosfere dei pianeti giganti, i nostri risultati forniscono uno strumento immediato per supportare l’interpretazione dei dati osservativi e rappresentano un significativo contributo alla crescita della nostra conoscenza nell’ambito della formazione planetaria», conclude Pacetti.
Per saperne di più:
– Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “[Chemical diversity in protoplanetary discs and its impact on the formation history of giant planets](https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4357/ac8b11)” di Elenia Pacetti, Diego Turrini, Eugenio Schisano, Sergio Molinari, Sergio Fonte, Romolo Politi, Patrick Hennebelle, Ralf Klessen, Leonardo Testi e Ugo Lebreuilly
Cordialmente,