
La Business Judgment rule (BJR), una dottrina ancora tutta da scoprire ed applicare in Italia. Editoriale.
(AGENPARL) – Roma, 09 novembre 2021 – La Business Judgment rule è una dottrina derivata dalla giurisprudenza nel diritto societario, la quale stabilisce che nel prendere una decisione commerciale, gli amministratori di una società hanno agito su una base informata, in buona fede e nell’onesta convinzione che l’azione intrapresa fosse nel migliore interesse della società.
Nell’ambito delle problematiche inerenti alla valutazione della responsabilità degli amministratori di società, la cosiddetta business judgment rule (BJR) costituisce, come è noto, ormai un punto di riferimento centrale, il cui costante richiamo viene compiuto nelle riflessioni dottrinali, così come l’esplicita menzione che si può trovare sempre nelle sentenze di merito e di legittimità.
Tuttavia è una ‘nuova’ formula che è diventata una sorta di canone acquisito anche nell’ordinamento societario italiano, anche se – ad onore del vero – è ancora poco applicata.
Tale regola esiste in qualche forma nella maggior parte dei paesi di common law, inclusi gli Stati Uniti, Canada, Inghilterra e Galles, e l’Australia.
La recente sentenza n. 25056 del 9 novembre 2020 della Corte di Cassazione ha riaffermato la piena operatività nel nostro ordinamento della regola di origine statunitense meglio nota come «Business Judgment rule», la quale sancisce il principio di insindacabilità nel merito delle scelte di gestione assunte dagli amministratori nell’espletamento del loro incarico.
Nella sentenza richiamata si legge testualmente che: «all’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società: ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, e quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità».
Per meglio comprendere quanto affermato dalla Corte di Cassazione, occorre soffermarsi sull’attuale disciplina dettata dal codice civile in tema di obblighi e responsabilità degli amministratori.
Più precisamente l’articolo 2392 del codice civile stabilisce che gli amministratori devono «compiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze». Pertanto, agli amministratori di società corre un obbligo generale di diligenza che consistente nel dovere di adempiere ai propri doveri con la «diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle specifiche competenze».
Si tratta di una regola fondamentale, a cui devono conformarsi tutte le azioni e i comportamenti degli amministratori, indipendentemente dalla circostanza che essi siano specificatamente imposti dalla legge o dallo statuto.
La norma citata, in particolare, nello stabilire i presupposti della responsabilità civile dell’amministratore, individua un parametro generale al quale l’attività degli amministratori deve conformarsi, che è fondato su due criteri: uno oggettivo, costituito dalla «diligenza richiesta dalla natura dell’incarico» che, rinviando al secondo comma dell’articolo 1176 del codice civile «nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività’ professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività’ esercitata», richiama pertanto la nozione di diligenza tipica del buon operatore professionale, l’altro soggettivo, costituito dalla «diligenza richiesta dalle specifiche competenze», il quale consente una maggiore personalizzazione della diligenza richiesta ai singoli amministratori, chiamati ad operare non solo con la diligenza propria del buon gestore professionale, ma anche con quella esigibile in base alle proprie specifiche competenze.
In sostanza, la diligenza nella gestione della società deve essere valutata rispetto al fatto concreto, considerando tutte le circostanze del caso, tenendo in considerazione le specifiche caratteristiche della realtà societaria in cui l’amministratore si trova ad operare nonché la natura dell’incarico che l’amministratore si trova a svolgere.
Nell’ambito di tutte queste valutazioni, si inserisce proprio la Business Judgment rule (BJR), che introduce un limite al sindacato nel merito delle scelte di gestione compiute dagli amministratori, al fine, da un lato, di garantire loro un più ampio margine di autonomia gestionale, dall’altro, di limitarne la responsabilità in tutti quei casi in cui, pur nel rispetto degli obblighi, generali e specifici, gravanti sugli amministratori, le scelte gestionali da essi compiute si siano rivelate erronee o imprudenti.
La Business Judgment rule elaborata dalla dottrina statunitense, proprio allo scopo di circoscrivere l’ambito di sindacabilità delle scelte imprenditoriali compiute dagli amministratori, sancisce il principio dell’insindacabilità nel merito delle scelte di gestione operate dagli amministratori nell’espletamento del loro incarico.
In un’ottica di bilanciamento di interessi, dunque, la BJR consente il raggiungimento di un equilibrio tra l’interesse dei soci diretto ad ottenere che la società sia correttamente amministrata, con l’esigenza degli amministratori di poter gestire la società con una certa discrezionalità imprenditoriale, fintanto che la loro attività si conformi al generale obbligo di diligenza.
In linea con la concezione – accolta dall’orientamento costante di dottrina e giurisprudenza – secondo la quale gli amministratori, accettando l’incarico, assumono un’obbligazione di mezzi e non di risultato, per cui non si obbligano a raggiungere un determinato risultato, ma solo ad adottare modalità di amministrazione diligente, la BJR ha trovato formale riconoscimento anche nel nostro ordinamento a partire dal 1965 con un’importante sentenza della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 2359 del 12 novembre 1965), andando, via via consolidando nel tempo e trovando accoglimento non solo da parte della giurisprudenza di legittimità ma anche di quella di merito.
In sostanza, la Business Judgment rule fa in modo che il giudice, eventualmente chiamato a stabilire la sussistenza o meno di profili di responsabilità dell’amministratore rispetto ad una certa attività gestoria posta in essere, possa estendere la sua valutazione esclusivamente alle modalità di esercizio del potere gestorio ma non anche ai risultati dell’attività posta in essere dall’amministratore.
Pertanto, il giudice non potrà desumere la sussistenza di margini di responsabilità dell’amministratore semplicemente valutando i risultati negativi della gestione operata (che tutt’al più potranno costituire motivo di giusta causa per la revoca dell’amministratore stesso).
La legge, dunque, consente agli amministratori di assumere decisioni rischiose e potenzialmente dannose per la società, purché esse rientrino nel cosiddetto «rischio d’impresa», a meno che non provochino danni alla società derivante da una gestione negligente (cosiddetta mala gestio). Pertanto, nel caso in cui, in conseguenza di un atto discrezionale di gestione, si sia verificata una perdita o, addirittura, il default della società, gli amministratori non incorrono, ipso facto, in responsabilità per mala gestio, ma, in virtù della BJR – la quale vieta al giudice di compiere un sindacato nel merito delle scelte di gestione compiute dagli amministratori, consentendogli, esclusivamente, un sindacato sulla diligenza – risponderanno del danno cagionato alla società solo ove esso dipenda dalla violazione degli obblighi di diligenza gravanti su di essi.
La prima Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 28718 del 16 dicembre 2020, torna a occuparsi del principio della «business judgement rule» ribadendo che gli amministratori non possono essere ritenuti responsabili per i rischi che l’impresa normalmente corre durante tutta la sua vita, nel senso che ad essi non potrà essere addossato il risultato negativo dell’attività sociale o di singoli atti ad essa correlati, con conseguente insindacabilità delle scelte gestionali. In nessun caso, quindi, il giudice potrà sindacare il merito delle scelte imprenditoriali a meno che, se valutate ex ante, queste risultino manifestamente avventate e imprudenti.
Sempre in base al principio «business judgment rule» la convenienza delle scelte di gestione adottate dagli amministratori e dai liquidatori di società è tendenzialmente insindacabile in sede giudiziale, salvo la manifesta irragionevolezza delle stesse, desumibile dal fatto che l’amministratore non abbia usato le necessarie cautele e assunto le informazioni rilevanti. Si tratta di una valutazione da condurre necessariamente ex ante, non potendosi affermare l’irragionevolezza di una decisione dell’amministratore per il solo fatto che essa si sia rivelata ex post economicamente svantaggiosa per la società. In particolare, non può essere ritenuto responsabile l’amministratore o il liquidatore che, prima di adottare la scelta gestoria contestata, si sia legittimamente affidato all’ausilio di figure professionali specializzate.
Tutto chiaro?