
L’ho già detto in passato e oggi mi trovo a ribadirlo con ancora più fermezza: non c’è dubbio che il nostro sistema vada riformato, lo si dice da sempre e, almeno apparentemente, lo si è tentato di fare più volte, e più andiamo avanti e più il ritardo è colpevole. È parimenti evidente che il taglio dei parlamentari, così effettuato, non è la risposta ma, d’altro canto, se uno decide di recarsi alle urne allora è bene che dia il segnale che lo scardinamento del sistema da qualche parte deve iniziare, per questo voterei sì.
Purtroppo ormai la mia sfiducia nel sistema politico e amministrativo italiano è tale che questa volta, per la prima volta e temo per molto tempo, non mi recherò alle urne. Se tutti gli italiani si astenessero dalle urne questo sì che sarebbe un bel segnale, forte. Una presa di posizione netta da parte del popolo che vuole riprendere il posto di sovrano che la Costituzione gli attribuisce ma che nessun governo, ahimè, gli ha mai realmente riconosciuto. Ma questo è un tema che nel caso approfondiremo in un’altra occasione.
Tornando alla finta riforma attuale, devo dire che provo grande tenerezza nel leggere le dichiarazioni dei parlamentari delle cosiddette opposizioni (cosiddette perché lo sono a targhe alterne in base alle convenienze di giornata) che sostengono il “no” con la scusa che “Questo è un sì o no a Conte” (a cui come tutti sanno andrebbe il mio personalissimo no) per non dire che la verità, ovvero che a casa “da mamma’ ” non ci vuole tornare nessuno.
Il Parlamento costa troppo, i parlamentari sono troppi, la macchina legislativa è lenta e inefficiente: questo è certo. Nell’epoca del post ideologismo, dell’assenza dell’Idea e del trionfo del senso pratico, a uscire decisamente indebolita è la concezione della politica che può fare a meno dei grandi riferimenti ideologici e delle visioni di insieme. È il trionfo della ricerca del consenso, della propaganda come fine e della deresponsabilizzazione come bussola dell’azione politica, ora ridotta a semplice amministrazione. Il “taglio delle poltrone”, così come raccontato all’opinione pubblica, si inserisce perfettamente in tale contesto.
Uno dei cavalli di battaglia dei proponenti è il risparmio dei costi per le casse dello Stato. Anche qui però le cifre sparate un po’ ovunque (Di Maio già un anno fa parlava di 500 milioni a legislatura) non sembrano molto precise. È stato invece calcolato che il risparmio complessivo determinato dal taglio dei parlamentari sarebbe di 61 milioni l’anno. In effetti, la riforma non incide né sul personale, né sulle spese correnti di funzionamento delle Camere, né sui trattamenti previdenziali (almeno non nel breve termine).
Dunque il semplice taglio dei parlamentari determinerebbe risparmi sulla quota per indennità, spese per esercizio di mandato e rimborsi spese vari di senatori e deputati. Ma questa è una cifra minima rispetto ai circa 975 milioni di costo della Camera dei deputati e ai 550 circa di costo del Senato. Questo perché la mera riduzione del numero di parlamentari non è affiancata dalla revisione dei processi e delle strutture che determinano la spesa maggiore per le casse dello Stato e non è da escludere che, per gestire una mole di lavoro maggiore e spostamenti più ampi, il costo per singolo parlamentare post riforma possa aumentare. Posto che credo fermamente, come ho già detto e come ribadisco, che il sistema vada riformato profondamente, che il taglio proposto dal referendum possa essere un primo passo non lo confermo ne’ lo escludo, ma certamente stona un po’ nel contesto in cui si inserisce (oltre alle mie perplessità strutturali e amministrative di cui ho accennato). Tanto per fare un esempio del “contesto”, l’ufficio stampa e del portavoce di Giuseppe Conte ha in organico 7 persone per un costo complessivo di 662 mila annui, di cui 169 mila vanno al portavoce Rocco Casalino. Secondo in classifica il governo Letta, che contava 7 persone nello staff comunicazione per un costo totale di 629mila euro annui e con il portavoce pagato 140mila euro. L’esecutivo di Paolo Gentiloni poteva invece contare su una struttura di sette persone per un costo di 525 mila euro. Più complesso il calcolo per il governo di Matteo Renzi: appena insidiato il team dell’ufficio stampa si basava su 4 persone e un costo complessivo di 335mila euro. Ma alla fine del mandato i costi erano saliti fino ai 605mila euro per un organico di sette persone.
Anche dal punto di vista della “velocità” ed “efficacia” del lavoro del Parlamento in seguito alla riduzione dei componenti è lecito sollevare qualche dubbio. Questo perché la riforma non interviene sui meccanismi istituzionali, non intacca il bicameralismo perfetto, non modifica i rapporti col governo, né (ovviamente) incide sui regolamenti parlamentari e sulle dinamiche interne alle Camere. Il tempo medio di approvazione di una legge nella XVII legislatura è stato di 237 giorni, con un legame diretto fra la volontà politica del governo e la celerità del via libera del Parlamento: anche senza considerare i decreti, consideriamo che le 46 leggi di iniziativa parlamentare hanno richiesto in media 504 giorni l’una (quasi un anno e mezzo), le 195 leggi di iniziativa governativa sono state approvate in media in 172 giorni, neanche 6 mesi. La riforma non migliora questi meccanismi perché, non solo non interviene direttamente nei meccanismi del bicameralismo, ma aumenta anche il carico di lavoro per il singolo parlamentare e per il suo staff, con il rischio che a sconfinare sia ancora più spesso il governo, che in questi mesi a suon di DPCM ha sotterrato la democrazia a cui adesso però chiede di recarsi alle urne per avere un consenso. Insomma, la coerenza prima di tutto.