
(AGENPARL) – Roma, 14 marzo 2020 – È ormai una settimana che si è costretti, almeno nella nostra Provincia di Pesaro e Urbino nelle Marche, a stare in casa, a distanza di sicurezza, limitando i contatti per il bene degli altri e proprio.
In un attimo, la notizia che tutto il Mondo sentiva dai Media circa la situazione di Whuan e che si percepiva così lontana è divenuta realtà, anche per noi e le scene apocalittiche dallo schermo televisivo sono diventate la nostra realtà. Anche noi, ora dobbiamo uscire con le mascherine, i guanti in lattice per fare la spesa e si insinua il pensiero e la tentazione di vedere l’altro non più come fratello bensì come pericolo, come possibile vettore di quel male che cerchi in tutti i modi di evitare per te, i tuoi cari, per gli altri.
Serpeggia, oggi, il pensiero che diverso tempo fa Thomas Hobbes espresse in relazione alla vita dello Stato, sintetizzato nel celebre brocardo homo homini lupus. Serpeggia oggi nei nostri cuori lo scoraggiamento, non eravamo preparati: dalla nostra massima libertà, di muoverci, spostarci, incontrarci, a misure restrittive che fanno emergere tante parti di noi che, forse, non sapevamo di avere e così, a volte, non sappiamo gestire i nostri pensieri che si avvicendano tra tanti perché e tante paure.
Ritorna così attuale il grido che il Popolo di Israele levò a Dio dalla condizione di schiavitù in Egitto, il grido di una umanità fragile, sfinita, impaurita e tutto sembra tacere; ancora una volta siamo messi in crisi dal silentium Dei che diventa assordante; diventa così nostro l’appello di Is 63: Se tu squarciassi i cieli e scendessi. «Dove sei Signore? La fede, ora, cosa serve? Io credo ma non cambia nulla!»
Mi viene in mente quando ero ragazzo che, coi giovani della parrocchia, si andava in montagna per i campi estivi; di tutti quegli anni è rimasta viva in me una immagine: mi trovavo sulla roccia nuda, arida e, stando attento a dove mettevo i piedi, mi accorsi che tra la durezza di quelle rocce spuntava una pianta con un piccolo fiore. Era una piccola pianta, insignificante, forse, ad un primo sguardo ma per me non fu così.
Quella pianta diventò per me il simbolo della fede; uno strumento piccolo, come il granello di senapa, che però è in grado di frantumare – con la sua forza di vita – la durezza più aspra della roccia; la fede, che strumento prezioso, dono di Dio.
Così, nel pavimento roccioso e scivoloso della attuale nostra quotidianità anche a noi si offre questo strumento. Essa non ci toglie dalla quotidianità, non cambia gli eventi, non ci toglie i problemi, non è magia: essa è criterio ermeneutico, possibilità di interpretazione dei fatti alla luce di una scienza e conoscenza che, al di là di quanto può apparire, ci fa rendere conto che Dio se ne prese pensiero.
La fede ci consente di ‘squarciare questo tempo’ per cogliere la presenza premurosa della Provvidenza di Dio che conduce il Mondo anche in questi momenti, nel modo che solo Lui conosce e per vie che solo a Lui sono note. Sono sicuro che è l’azione provvidente di Dio a guidare le intelligenze degli scienziati e dei medici, come è la Sua azione a guidare i nostri cuori che si stanno attivando in tante forme di solidarietà. Come non vedere l’azione provvida di Dio nei tanti medici e malati che, davvero, stanno concretizzando nelle loro vite il richiamo evangelico: non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici! Loro lo stanno facendo.
Forse questo può essere il tempo giusto per approfondire la fede: con la preghiera, lo studio, la solidarietà, la virtù; è il tempo dell’essenziale; è il tempo, in cui, paradossalmente, l’invisibilità di un virus ci dà la possibilità di cogliere quanto l’invisibile è realtà e come può condizionare la vita dell’uomo.
Ci accorgiamo così, con la luce della Fede, che Dio non è silente ma ci sta parlando ogni giorno: attraverso la Chiesa, il Santo Padre; attraverso le autorità civili che si stanno prodigando per il nostro bene; attraverso i medici, gli ammalati, tutti coloro che si stanno adoperando per garantirci le merci, il pane quotidiano, gli operatori dei trasporti, attraverso tutti gli uomini di buona volontà.
È il tempo in cui possiamo riscoprire ciò che davamo per scontato: gli affetti, il volerci bene, uno sguardo di amore, un sorriso, un dirci: «non sei solo, siamo insieme»; è come un lungo sabato santo che, se vogliamo, diviene preludio per una vita nuova.
È il tempo di sostenerci, di aiutarci, di entrare nelle periferie esistenziali del nostro cuore, nelle nostre paure: lasciamo che Cristo entri lì, proprio in queste nostre periferie, come quando entrò nel sepolcro di Lazzaro, sentiamo il Suo grido: vieni fuori, usciamo con Lui da queste paure e, certi della Sua presenza al nostro fianco, continuiamo ad essere noi la Sua presenza e la Sua dolcezza per tanti nostri fratelli. Da questo sapranno che siete miei discepoli.
don Giorgio Giovanelli