
(AGENPARL) – Roma, 10 marzo 2020 – Lunedì il mercato del petrolio ha aperto circa con il 25 per cento in mano, il calo più significativo degli ultimi decenni e i mercati finanziari mondiali sono scesi così precipitosamente che gli interruttori automatici messi in atto durante i periodi di volatilità sono intervenuti, interrompendo temporaneamente gli scambi.
Non ci sono aggettivi che tengano per descrivere ciò che sta accadendo al mercato petrolifero. Oggi ci sono più crisi che si stanno intersecando contemporaneamente.
Innanzitutto, c’è ovviamente una crisi sanitaria globale: il coronavirus ( Covid-19) continua a diffondersi. In secondo luogo, c’è una crisi economica. La Cina ha chiuso alcune parti della sua economia a gennaio e febbraio. Seguono alcuni Paesi dell’Europa.
Il Dow Jones è diminuito di oltre il 16 percento la scorsa settimana e i mercati si sono rapidamente spostati dalla preoccupazione al panico in piena regola.
In terzo luogo, se tutto ciò non bastasse, l’OPEC e la Russia hanno problemi di approvvigionamento di petrolio. Il fallimento dei colloqui della scorsa settimana e la conseguente guerra dei prezzi ha portato il WTI a $ 33 al barile a mezzogiorno di lunedì, in calo rispetto ai $ 45 di giovedì scorso alla vigilia dei colloqui dell’OPEC +. L’OPEC e la Russia hanno affermato che tutte le restrizioni alla produzione scadranno alla fine del mese e che tutti possono produrre a piacimento. Il petrolio potrebbe facilmente scivolare verso i $ 20 in qualsiasi
Gli analisti prevedono ora che l’Eurozona, come minimo, si stia dirigendo verso una recessione economica.
Il ministro delle finanze francese Bruno Le Maire ha affermato che l’Europa ha bisogno di una «chiamata alle armi» per difendere l’economia.
Parlare oggi di chiamata alle armi da parte dei francesi suona come una beffa. La risposta sta solo nel numero delle fabbriche comprate dagli stranieri, nei settori produttivi dai quali siamo stati virtualmente espulsi «spintaneamente» dall’Europa, dal numero delle aziende che i suddetti hanno acquistato dallo Stato (Gs, Telecom, Ilva, Alitalia, ecc) per lo più a prezzo di saldo e che sotto la loro «illuminata» guida hanno condotto al disastro. Naturalmente senza mai rimetterci un soldo di tasca propria.
Eppure avevamo uno strumento formidabile per il nostro sistema economico: l’IRI.
L’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) nacque nel 1933 ed è stato posto in liquidazione nell’assemblea straordinaria del 27 giugno 2000.
Gli storici, in occasione della liquidazione dell’IRI hanno messo in evidenza la funzione fondamentale dell’Ente, vero e proprio motore economico, secondo l’insegnamento di Francesco Saverio Nitti, ripreso poi da Alberto Beneduce.
Oggi l’IRI lascia un vuoto incolmabile, anche alla luce della grave crisi economica, perchè le imprese italiane non sembrano in grado di attrarre il risparmio nazionale il quale emigra per poi tornare a comprarsi le aziende italiane.
Un sistema economico italiano troppo ingessato, dove c’è il rischio dello spostamento degli investimenti esteri come ad esempio nel campo del 5G che dall’Italia potrebbero essere dirottati dai grandi gestori di telefonia in altri Paesi extra Ue.
Scriveva Massimo Pini «l’Iri è stato l’illustre vittima della globalizzazione dei mercati e della realizzazione dell’Unione europea: si decise allora che il sistema misto italiano non avrebbe potuto sopravvivere».
Dopo l’epidemia Coronavirus per far ripartire l’Italia bisogna nazionalizzare le aziende in crisi presenti ai 150 tavoli del MISE, sbloccare i bandi e quindi dare commesse e lavoro alle aziende, ma soprattutto dobbiamo tornare allo Stato imprenditore con la ricostituzione dell’IRI.